martedì 23 dicembre 2008

Dopo un silenzio

Una delle mie ultime riflessioni. Sarà mai poesia? Non lo so.
Perchè, dopotutto, vorrei che queste parole non fossero precise e capaci di definire tutto come su un vocabolario, quanto, piuttosto, vorrei fossero come impressioni, macchie di colore, fotografie forse un po' sfuocate che suggeriscono, ma in cui si possa vedere molto di più di quanto il contorno definito possa dire.
Mi rimetto alla clemenza e alla immaginazione di chi leggerà.

J.

"L'odore di matita cancellata"

L'odore di matita cancellata
e il gesto divertito
di soffiar via con decisione
la strana amalgama di grafite e gomme sintetiche,
mi ricorda
dei pomeriggi a scuola,
quando messo nuovamente il grembiule azzuro,
dopo l'intenso giocare a calcio contro un cancello
e le fantasiose impersonificazioni

- "Io sono tal dei tali",
"Facciamo Juve contro Toro",
"No" esclamava un bimbo smaniosamente
che voleva una sfida ancora più esaltante,
"Facciamo Milan contro l'Italia tutta" -,

si tornava alla grigia aula,
passando per i corridoi che,
brulicanti la mattina di visini,
ora assistevano impietriti
alla processione verso i banchi:
verdi,
uniformi,
uguali,
puliti.

Due ore di esercizi di scrittura:

ora le "a"

ora le "b".

Le mie "emme"
avevano sempre
più colonne e più archi del necessario.

Le sapevo scrivere:

ma fin da piccolo
ho sempre creduto
nell'ortografia dell'immaginazione.

lunedì 17 novembre 2008

Sfoghi

Semplicemente nero su bianco. Dai miei taccuini: due "non-so-nemmeno-come-chiamarle". Diario di un cuore in movimento. Rappresentazioni di un'anima inquieta CREATA per la pace. E come Hopkins mi domando: "When will you ever, Peace, wild wooddove, shy wings shut, your round me roaming end, and under be my boughs?"
Regards and blessings
J.

HO COMINCIATO UN NUOVO TACCUINO

"Ho cominciato un nuovo taccuino
ma non una nuova pagina della mia vita:
scrivo ancora di lotte non risolte.

La ferita non recede nè si satura
ma, infetta e imputridita,
si sazia di pezzi di me,
lentamente.

La carne necrotica non dà più
sensazione di dolore;
l'anima al contrario
amplifica l'agonia risuonando.

Talvolta lo spasmo si assopisce
e un abbozzo di sorriso sembra sottolineare
la speranza di una guarigione.

Talvolta, improvvisamente, mi guardo
allo specchio e vedo
l'uomo interiore deformato,
mentre i miei occhi fissano
i segni della crescita del corpo e
del suo invecchiamento.

Curo assiduamente l'esterno della coppa
eppure sento l'aceto al suo interno.
Una volta credo fosse vino buono.

IO SONO CHARLIE BROWN - una riflessione

La cassetta delle lettere
era vuota oggi.
Non v'erano neppure
i tediosi pamphlet
dai convenientissimi affari.

Vero Charlie Brown
ho scosso il mio ciuffo di capelli.

Chino la mia testa,
Malinconico,
nel guantone di pelle.

Sarà per un'altra volta
ragazza dai capelli rossi.

venerdì 7 novembre 2008

Le Braccia e le Mani di Dio - Come antropomorfismi, metafore e immagini ci invitano ulteriormente alla comunione con il Dio Trino

Lettura
Gal. 4:4-6, Deut. 33:27, Ebr. 2:10-14

La poesia non è il linguaggio della spiegazione oggettiva ma il linguaggio dell’immaginazione. Essa fornisce un’immagine della realtà in modo tale da invitarci a partecipare in essa. Non abbiamo più informazioni dopo aver letto una poesia; abbiamo più esperienza. Non è un “esame di quello che accade ma un’immersione in ciò che accade” (E. Peterson – Reversed Thunder)

Braccia.
Braccia muscolose e allenate, braccia esili e intellettuali, braccia glabre e braccia pelose, braccia su cui la camicia è arrotolata e braccia su cui la camicia è ben abbottonata, braccia abbronzate e braccia bianche come il latte, braccia di adulto e braccia di bambino, braccia ferite e braccia dalla pelle liscia, braccia sudate e braccia profumate, braccia su cui il duro lavoro lascia segni e braccia su cui l’unico segno è l’impronta della scrivania, braccia di adulto, protettive, braccia di bambino, in cerca di protezione, braccia che stringiamo intorno a chi amiamo, braccia che ci stringono per dire che siamo amati,braccia capaci di alzare pesi e braccia capaci di cullare, braccia di uomo e braccia di donna, braccia umane e braccia di Dio.

Braccia di Dio.

Eterne, forti e potenti eppure anche tenere e delicate, “spirituali” e “materiali”, talvolta come nascoste e talvolta come tangibili, eppure braccia sempre presenti perché ciò che l’occhio non vede il cuore sa; braccia che reggono gli universi e i mondi e braccia che accolgono un figlio prodigo al suo ritorno; braccia che erano presenti prima ancora che il mondo fosse in un tempo chiamato eternità, braccia che si stendono verso un tempo futuro chiamato eternità, braccia del Dio degli eserciti e braccia del Dio Pastore, dunque braccia di Dio con tutte le sfumature e i colori che questa immagine ha.
Mosè conosceva quelle braccia. Le aveva viste operare nella sua vita e nella vita del popolo di Israele. Braccia che non si conoscono come in un manuale di anatomia, studiandole e definendo i muscoli e i nervi: così sono braccia asettiche, intellettualizzate, ma ferme come quelle di un manichino; piuttosto braccia che si conoscono per esperienza e contatto con esse, braccia che si vogliono definire per noi e rivelarsi, braccia che seguono l’impulso di un sentimento eterno di comunione, dimora, braccia mosse dal cuore di Dio.
Ecco perché nel suo canto del cigno il profeta con cui Dio trattava faccia a faccia come con un amico intimo, in un impeto immaginifico e ispirato, guarda con gli occhi lucidi al popolo e scorge qualcosa che soltanto gli occhi di un profeta possono vedere. Dietro ai volti delle persone, a quella folla di uomini, donne e bambini, c’era molto di più di Israele stesso, molto più di vesti sgargianti, di tende, di cibo, di scudi, di barbe e copricapo, di monili e profumi. Dietro a tutto questo c’era Dio stesso:

Il Dio eterno è il tuo rifugio
E sotto di te stanno le braccia etern
e”
(Deuteronomio 33:27)

Mani.

Mani bianche e mani scure, mani gialle e mani nere, ma la cui vita proviene da uno stesso sangue rosso, mani callose e mani curate, mani piagate e mani morbide, mani forti e mani esili, mani che disegnano e mani che costruiscono, mani che schiaffeggiano e mani che accarezzano, mani grandi e mani piccole, mani che si stringono e mani che si separano, mani che benedicono e mani che insultano, mani che sferruzzano e mani che scrivono, mani che eseguono movimenti coordinati su tasti ora bianchi ora neri e mani che hanno scolpito quegli stessi tasti, mani nude e mani ornate da anelli, mano destra e mano sinistra, mani che si alzano e mani che stanno ferme, mani di uomini e mani di Dio.

Mani di Dio.

Eterne, le cui dita hanno disposto negli spazi siderei le stelle e gli astri e le cui dita hanno toccato cuori di pietra, mani pure eppure che non hanno paura di sporcarsi toccando lebbrosi, malati, peccatori, uomini e donne, me e te, mani senza guanti, mani che sostengono, mani che agiscono, mani che proteggono, mani che stringono a sé, mani che custodiscono, mani che donano, mani che hanno aperto una via per cui camminare e mani che indicano il sentiero da percorrere, mani che hanno scritto la storia e mani che creano una nuova storia nella vita di ogni essere umano, mani fedeli e piene di promesse, mani sui cui palmi sono scolpiti i ritratti di persone come perenne ricordo d’amore, mani sui cui palmi, fra visi e volti, c’è il segno di chiodi, mani che reggono l’universo eppure mani ferite, mani di Dio con tutto quello che quest’ulteriore immagine comunica in tutta la sua grandeur.
Mosè conosceva quelle mani. Quando sul monte Dio fece passare davanti a Mosè tutta la Sua bontà proclamando la Sua gloria (Esodo 33:19), la mano di Dio coprì il decano dei profeti; messo in una buca di un masso, Mosè sentì su di sé la mano di Dio.
Quelle stesse mani che avevano operato prodigi; quelle stesse mani che con un dito scrissero su tavole di pietra e quelle stesse mani che scrivono oggi su tavole di carne chiamate cuori. Mani sempre tese verso l’uomo, mani che si sono fatte toccare dalle nostre mani (cfr. 1 Giov. 1:1-4), mani che, come Giovanni ci dice nella visione grandiosa che contemplò, asciugheranno le nostre lacrime; mani che come spezzarono del pane sulla via per Emmaus per due discepoli lo spezzeranno ancora per molti altri quando saremo a tavola con Lui.

Antropomorfismi.

Questo il nome tecnico che gli studiosi danno a immagini come queste: Dio con braccia, con piedi, con mani, con viscere e cuore. Spesso trascurate o prese soltanto come metafore esse sono invece l’anticamera al più grande “antropomorfismo” a cui si assiste nella rivelazione biblica: l’incarnazione. Non metafora, ma Cristo perfetto Dio e perfetto uomo.
Questo modo che Dio ha di parlare alle Sue creature ha origine nel Suo desiderio di comunicare e rivelarsi non in maniera distaccata e asettica, come se i Suoi attributi potessero essere oggetto di critica e analisi metodologica, ma soprattutto in maniera personale e intima. Non solo. Questo modo di parlare ha origine in quel desiderio tipico del “Circolo Trinitario” di chiamare all’interno della “comunità del Dio Trino” l’uomo. Dio ci vuole includere in quel dialogo e in quella relazione che sussiste da ogni tempo tra Padre, Figlio e Spirito Santo. Le Sue braccia e le Sue mani sono protese verso di noi annunciando questo invito.
E siccome la teologia è lo studio di Dio, del Suo carattere e delle Sue vie, non sorprende che nel corso del tempo qualcuno cogliesse con grande efficacia queste immagini di braccia e mani, non solo facendolo proprie nel cuore ma anche facendocele riscoprire con voce al contempo biblica, profetica e poetica. La teologia diventa così una ricerca all’interno della rivelazione (“cerchiamo come chi sta per trovare, troviamo come chi sta per cercare” diceva Agostino), riscoprendola di volta in volta nella sua purezza originale, purezza che spesso rischiamo di perdere perché presi piuttosto dalle nostre agende, dalle nostre preoccupazioni, dai nostri piani. Questa volta la voce che si alza è quella di un apologeta, cioè di un teologo che dedicò la sua vita alla difesa della fede Cristiana. Ireneo di Lione usa una metafora straordinaria che preserva la ricchezza della metafora biblica stessa. Dio è intervenuto nella storia umana attraverso due mani, cioè attraverso la Parola e lo Spirito, attraverso Cristo (la Parola incarnata) e lo Spirito.
Il Nuovo Testamento concordemente ci spiega in modo estensivo questa metafora che affonda le sue radici nell’Antico Testamento e che Ireneo colse nuovamente qualche anno più tardi nella sua difesa della fede dagli attacchi di Marcione e dello gnosticismo.
Al fine di condurre molti figli alla gloria, l’autore anonimo dell'epistola agli Ebrei, ci dice che “poiché i figli hanno in comune sangue e carne, Egli [Cristo cioè] pure vi ha similmente partecipato”(Ebrei 2:10, 14). Paolo stesso fa eco a questa melodia dicendo che “quando giunse la pienezza del tempo Dio mandò Suo figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare quelli che erano sotto la legge, affinchè noi ricevessimo l’adozione” (Galati 4:4-5).

La “prima mano”: Cristo incarnato. Egli che prende su di sé la natura umana e compie l’opera di redenzione per l’uomo.

Paolo stesso ci ricorda poi che “avete ricevuto lo Spirito di adozione, mediante il quale gridiamo Abbà, Padre” (Romani 8:15). Affermazione di cui troviamo ulteriore conferma nuovamente in Galati dove l’apostolo scrive che “perché siete figli Dio ha mandato lo Spirito del Figlio Suo nei nostri cuori, che grida Abbà, Padre” (Galati 4:6).

La “seconda mano”: lo Spirito Santo nei nostri cuori, Colui che produce in noi la vita di Cristo e agisce in noi per trasformarci, sigillandoci come proprietà speciale di Dio.

“In Cristo, la Parola fatta carne, e nello Spirito, siamo condotti al Padre attraverso l’intercessione di Cristo e l’intercessione dello Spirito. Siamo sollevati dalle “braccia eterne”” (James B. Torrance, Community, Worship and the Triune God of Grace, IVP) .

Le immagini di mani e braccia di Dio hanno così la loro massima espressione non primariamente sul piano metaforico (per quanto grandiose e profonde siano queste immagini), ma su un piano reale e tangibile. Le braccia di Dio e le Sue mani non sono solo antropomorfismi da gettare in pasto ai critici letterari e agli esegeti, ma sono il modo che Dio ha di attirarci a sé e di arrivare a noi.
Guardando la vita ci è offerta la possibilità di andare con lo sguardo oltre all’immediato e scorgere dietro a vestiti, sguardi, volti, barbe, capelli lunghi, libri e tomi, programmi di studio, progetti, numeri di telefono ed elenchi, la stessa cosa che Mosè vide, che Paolo esponeva con tanto pathos, che il misterioso autore della lettera agli Ebrei scrisse ad amici in difficoltà e che Ireneo, decine d’anni espose nuovamente nella sua poetica apologia: dietro a noi stanno le braccia e le mani di Dio.

Eterne.

Forti.

Piene di grazia.

Cristo e lo Spirito.

Dio con noi. Dio per noi. Dio in noi.

Dio Padre, Dio Figlio, Dio Spirito Santo.

Vivere sempre tra le Sue braccia, seduti nell’incavo delle Sue mani, vicino al Suo cuore, sotto il Suo sguardo, all’ombra del Suo sorriso.

sabato 1 novembre 2008

Possa la Sua polvere avvolgerti

Alcune riflessioni di un giovedì sera di qualche settimana fa.

Blessings.

J.

Luca 5:27-32

“ […] un monumento dice soltanto “sono arrivato fin qua” mentre un’orma dice “ero qui quando sono ripartito” (W. Faulkner)

Levi sedeva al banco delle imposte come ogni giorno, esercitando la sua impopolare professione. Egli era un impiegato dell’ufficio delle imposte e dunque una persona la cui figura ricordava costantemente ai suoi connazionali come Israele fosse una nazione soggetta, politicamente, all’impero Romano. Non solo. Levi era una di quelle persone che la gente cercava con tutte le forze di evitare: il Talmud stesso definiva gli esattori di tasse, forse con qualche ragione, dei “rapinatori”.

Gesù era appena uscito dalla casa in cui aveva guarito un uomo paralitico e stava, probabilmente, uscendo dalla città quando incontrò Levi. Lo trovò mentre egli stava esercitando le sue contestate mansioni.

Gesù lo notò. Lo guardò e gli rivolse una semplice parola: “Seguimi”.

La risposta di Levi fu sorprendentemente rapida. Egli lasciata ogni cosa (un particolare che Luca sottolinea con gran vigore rispetto agli altri sinottici), si alzò in piedi e si mise a seguirlo.

Si mise a seguirlo.

Questa espressione così concisa è molto densa e ricca di implicazioni. Per Levi, significò perdere in maniera definitiva il proprio posto di lavoro. Una volta abbandonata quella postazione egli non poteva più tornare indietro: quel gesto era un biglietto di sola andata, un’azione definitiva. Egli lasciò dietro alle spalle le sue ricchezze. Solitamente infatti, gli esattori di tasse, per non parlare poi dei capi di distretto come Zaccheo, erano persone benestanti con un letto soffice sotto il quale stavano tante tintinnanti monete. Alzarsi e seguire Gesù implicava la rinuncia a tutto questo, che da qualche anno era stato il mondo del puntuale esattore di tasse.

Ciò che però colpisce ancora più con vigore in questo brano è il verbo che Luca usa per esprimere ciò che fece Levi. Si mise a seguirlo, cioè Levi cominciò quel giorno a seguire Gesù. Akolutheo è un verbo molto bello, usato primariamente nei Vangeli: riferito alle folle è usato in senso neutrale e non implica il formarsi di qualche convinzione. È forse il seguire delle folle e delle masse, fatto più di curiosità che di passione personale. Quando però è riferito a singoli individui esso prende il significato di “seguire in rapporto intimo”; esso sottolinea l’inizio di quel “cammino lungo e in una sola direzione” che è noto come l’essere discepoli.

Levi aveva appena mosso il primo passo su quella strada che può essere percorsa soltanto in avanti.

L’immagine che questo verbo e questa azione suggeriscono è di straordinaria potenza perché si inserisce nel contesto dell’epoca con una dimensione nuova e fresca. Nella cultura di quei tempi era pratica comune scegliere un rabbi che diventasse la propria guida. Scelto il rabbi, il discepolo aveva una sola occupazione: ricevere più nozioni e insegnamenti possibili dal proprio maestro. Questo aspetto era così sentito che il maestro era seguito dovunque: mentre camminava, mentre parlava con altri, mentre comprava la frutta e la verdura, mentre svolgeva le faccende domestiche e addirittura mentre andava in bagno! La paura era quella di perdere una eventuale “perla” di saggezza o di non imparare una nuova preghiera. Si narra nel Talmud di una caso estremo in cui un discepolo scivolò di soppiatto nel letto del proprio rabbi e si pose tra moglie e marito, sotto le coperte. Al rimprovero del maestro egli rispose “Anche questa è Torah e devo imparare”. A parte i casi estremi, si comprende l’importanza di questo atto di seguire il proprio rabbi da una benedizione che uno studioso di Antico Testamento, Ray van der Laan, ci riporta:

“possa tu esser sempre ricoperto dalla polvere del tuo maestro”.

Possa cioè la polvere dei piedi del tuo maestro, alzata dai suoi sandali, coprire le tue vesti e avvolgerti, perché ciò significa che lo stai seguendo mentre lui cammina, significa che i tuoi occhi sono puntati su di lui, che le tue orecchie sono protese e pronte ad ascoltare ogni sua parola.

Levi cominciò questo tipo di cammino.

Fu Gesù, il Maestro, che cercò Levi. Gesù affermò di esser venuto specificatamente e volontariamente a chiamare l’esattore di tasse. Infatti, ai farisei che come al solito erano scioccati e scandalizzati dal fatto che il Signore si associasse con gli emarginati della società e i reietti, Gesù rispose: “Io non sono venuto a chiamare dei giusti, ma dei peccatori a ravvedimento” (Luca 9:32).

Così è anche di me e di te. E’ il Maestro che è venuto a cercarci e ci ha chiamato, lì dove eravamo: seduti al tavolo delle imposte, seduti davanti al bancone di un bar mentre ammazzavamo il tempo bevendo e cercando di annegare le domande e le angosce in un buon litro di birra, vestiti di abiti eleganti mentre soddisfatti dei nostri conseguimenti sentivamo forte il vuoto che essi portavano, bagnati di pianto mentre i nostri fallimenti si facevano sempre più pesanti e insopportabili, tesi come corde di violino mentre cercavamo di ottenere il massimo dalla vita, pieni di domande mentre la realtà ci appariva difficile e complicata. Proprio lì Gesù ci notò e disse: “Seguimi”.

Così è anche di te e di me per ciò che concerne non solo l’inizio del cammino ma anche il suo proseguimento.

In questa chiamata c’è tanto.

C’è il Suo amore, il Suo perdono e la Sua grazia, perché seguire Gesù significa seguire i Suoi passi fino alla città di Gerusalemme, verso la quale Egli si pose risolutamente in cammino (cfr. Luca 9:51): sul monte del Calvario, appena fuori dalla città, Egli morì sulla croce per il nostro peccato.

C’è la speranza e la vita eterna che Egli offre perché seguire Gesù significa anche, seguire la corsa di Pietro e Giovanni verso il sepolcro e scoprire che il Principe di Vita non poteva essere trattenuto dalla morte : quella stessa vita è la vita che ha chiunque crede in Lui.

C’è sicurezza e forza quotidiana perché seguire Gesù significa salire sul monte insieme ai discepoli, qualche istante prima della Sua ascensione, per ricevere le Sue parole, il Suo incoraggiamento, la Sua pace. “Ogni potere mi è stato dato, andate e fate miei discepoli. Io sono con voi.”(Matteo 28:18-20).

C’è una qualità di vita traboccante, fresca e indomita, perché seguire Gesù significa seguire le orme che Lui ha lasciato e che scrive sui nostri cuori mediante lo Spirito Santo .

C’è un attesa fatta non di rassegnazione e fatalismo, ma di impegno, amore, costanza, e gioia, perché seguire Gesù in questo lungo cammino significa partire da un Gerusalemme per arrivare ad un'altra Gerusalemme, splendente, gloriosa e “celeste”, dove Lui mi attende e desidera.

Il cammino non è facile. Gesù non lo ha mai nascosto; più volte parlando ai Suoi discepoli di ogni epoca ha detto cosa implicasse questo: rinunciare a sé stessi, prendere la propria croce, seguirlo dovunque le sue orme portino. Ma il Maestro cammina al mio e al tuo fianco. Ed Egli, mentre camminiamo, dischiude sempre più il Suo cuore: questo cammino è un cammino di amore, perdono, grazia, speranza, vita eterna, forza quotidiana, gioia, condivisione. Questo cammino è un cammino che dà alla vita il suo vero significato. Questo cammino è quello al quale il Maestro chiama tutti gli uomini e le donne.

Lascia che la polvere del Maestro ti ricopra.

Segui le Sue orme.

Ascolta le Sue parole.

Parlagli.

Lascia che il Maestro ti guidi, passo dopo passo.

Del resto questo è l’unico sentiero che porta a Casa.

mercoledì 24 settembre 2008

Dio veste mocassini - riflessioni mattutine durante una passeggiata

Un altro momento di epifania.
L'ho avuto proprio stamattina mentre camminavo per le vie della città, tra i banchi colorati del mercato e la folla di persone che guardava con interesse alle merci esposte: vestiti, pantaloni, cappotti, quadri, stoffe, tende.
Ho camminato per parecchio tempo, con i polmoni pieni non solo d'aria ma, per quanto strano possa essere, pieni pure di gratitudine (penso che questo sia il modo migliore per spiegare il piacevole solletico che accompagnava l'atto fisico di inspirare ed espirare).
Immerso in pensieri, ad un tratto si sono combinati nella mia testa due ricordi provenienti da due domini temporali differenti.
Il primo ricordo è sicuramente più anziano: aveva a che fare con una vecchio proverbio indiano (indiano d'america per intenderci) che avevo letto per caso su una pietra circa un anno fa, in uno di quei negozi in cui solitamente entri soltanto perchè qualche amica o parente (in questo caso mia sorella e una sua amica) decide di entrare a curiosare attratta dalle miriadi di ciappini e profumi. Esso dice più o meno così: "Prima di giudicare una qualsiasi persona cammina nei suoi mocassini almeno per tre lune".
Il secondo ricordo è freschissimo. Devo dire che più che un ricordo è un vero e proprio ritornello. Sto lavorando infatti sulla lettera agli Ebrei: sulla sua teologia, sulla sua forma, sulla sua storia, sulla sua lingua e soprattutto sul suo testo. Lo scritto è piuttosto un sermone (e non una epistola). Un sermone scritto da un pastore ai suoi amici i quali non se la stavano passando per niente bene (probabilmente una seconda persecuzione violenta dopo quella già subita sotto l'imperatore Claudio). Comunque non è del materiale introduttivo al testo che voglio parlare.
Voglio intonare piuttosto un'altra volta quel ritornello che "fischietto" sovente in questi giorni.
In uno dei capitoli che aprono il testo si trovano scritte le seguenti parole: "Poichè dunque i figli hanno in comune sangue e carne, Egli pure vi ha similmente partecipato [..]Perciò Egli doveva diventare simile ai suoi fratelli in ogni cosa (grassetti miei)." (Ebrei 2:14, 17).

Camminando, cose a volte separate nella testa, si mischiano insieme e si fondono per dare origine a una visione nuova e fresca della realtà.

Camminare nei mocassini di un'altra persona significa immedesimarsi, senza recitare, in quello che l'altra persona sta passando o affrontando; significa andare oltre alle apparenze e comprendere invece quali sono le sue motivazioni; significa avere com-passione, cioè, nel senso vero e originale del termine, provare lo stesso pathos (sofferenze, gioie, ansie, paure, speranze, aspettative, gioie, ecc..). Camminare nei mocassini di una persona per almeno tre lune crea legami, dialogo, misericordia, senso di appartenenza alla comunità degli uomini e delle donne, allontana dall'individualismo e da forme di giudizio sterili, superficiali, scontate e fin troppo semplici da pronunciare. Camminare nei mocassini di una persona significa cambiare il punto di vista e significa guardarsi intorno con occhi per la prima volta rivolti al prossimo e non a me stesso (formidabile la metafora che i riformatori usavano dicendo che l'uomo "naturale" è "incurvato su sè stesso). Camminare nei mocassini di un altro vuol dire comprendere. Camminare nei mocassini di una persona significa tendere una mano, aiutare.

Se questo è già qualcosa di nuovo per persone che vivono in una società ego-centrica come la nostra, ancora più sorprendente è quello che il sermone noto come epistola agli Ebrei ci dice.

Gesù Cristo incarnandosi ha calzato i nostri mocassini.

Mi piace questa immagine. Si aggiunge a una serie di eventi biblici che hanno simile potenza immaginifica.

Dio si rotola e si azzuffa nel fango con Giacobbe; dialoga con Abraamo e Mosè come se fossero amici di vecchia data (per intenderci quelli che hanno giocato a nascondino nella stessa via durante l'infanzia, che sono stati compagni di banco per una vita e che ora guardano insieme la partita alla Tv); danza a tutta forza per un popolo, quello di Israele, che scopriamo essere fra le Sue gioie più grandi; si fregia dei Suoi amici e amiche che hanno percorso i sentieri di questo mondo al Suo fianco (vedi Ebrei 11 e in particolare il versetto 16)
e infine si scopre, come se non bastasse, che Egli ha calzato i nostri mocassini.

Eugene Peterson nel suo meraviglioso lavoro di traduzione della Bibbia (The Message) rende in questo modo significativo Ebrei 2:17: "
That's why he had to enter into every detail of human life".
Io, che non sono tecnicamente un traduttore, mi spingo oltre e parafraso lo stesso versetto nel modo seguente:

"Perciò Egli doveva calzare i mocassini dei Suoi fratelli e sorelle".

Sono forse ripetitivo. Ma del resto quando si guarda a una immagine, non si esaurisce al primo colpo d'occhio quello che l'immagine stessa vuole comunicare. La potenza comunicativa insita nelle figure consiste, tra le altre cose, nella loro abilità di imprimersi sull'anima in maniera incisiva e profonda, permettendo poi una meditazione e riflessione continua, che si allarga in cerchi concentrici a partire dal nucleo semantico (cioè a partire dal concetto che si vuole trasmettere).

Mi piace davvero questa immagine.

Che sia seduto o in piedi, pronto a camminare, che stia dormendo o stia mangiando, che stia leggendo o guardando un panorama, che stia ridendo o stia piangendo, Gesù Cristo sa cosa provo perchè anche Lui ha camminato nelle mie scarpe.

Non solo. Nel camminare nelle mie scarpe Egli ha vissuto una qualità di vita diversa: bella, abbondante, pura, misericordiosa, fresca, buona, santa, piena di compassione, di bene verso gli altri, amorevole, di servizio, giusta, amabile. In poche parole, la vita così come originariamente Dio l'aveva intesa, prima che noi uomini ci mettessimo il proverbiale "zampino" cercando di vivere una vita al di fuori di un rapporto personale con Dio.

Guardando ai miei piedi realizzo che sono compreso e capito in maniera ancor più profonda di quanto io creda. Cristo ha messo i miei mocassini e ha simpatizzato (sym-pathos, vedi Ebrei 4:15)

Ho la possibilità di una vita diversa anche io, piena di quelle qualità di cui si parlava poco prima. Cristo ha messo i miei mocassini e nei miei mocassini ha vissuto "senza commettere peccato"(cfr. ancora Ebrei 4:15), cioè vincendo quel principio che agisce in noi e che ci "incurva su noi stessi"tenendoci lontani da Dio e separandoci dagli altri esseri umani.

Quando guardo ai miei piedi, so di non essere abbandonato a me stesso in questo cammino esaltante e arduo chiamato vita: il Dio che è talmente grande da far sembrare la Terra lo sgabello dei Suoi piedi, si è chinato e ha, in modo affascinante e per certi versi sfuggente alla compresione, camminato nelle mie scarpe e segnato con i Suoi passi una nuova via.

Egli è conosciuto come Emmanuele, che tradotto significa Dio con noi,

ovvero

il Dio che veste mocassini.

Guardando ai Suoi piedi, si può capire molto del Suo cuore: Egli ci ama e desidera stare con noi.








mercoledì 27 agosto 2008

E-mail, fantasmi del passato, la famiglia, un amico e l'amore di Dio

Davide l'Antropologo non è il nome di un personaggio da me inventato (così' come sono solito fare nel mio cogitare notturno circa i possibili protagonisti del romanzo che prima o poi scriverò), ma grazie a Dio (nel pieno senso di questa espressione) è una persona esistente che posso vantare di chiamare amico e fratello (anche in questo caso nel pieno senso dei termini).

Io sto attraversando, lo ammetto, un periodo alquanto strano: ci sono "fantasmi del passato" che ancora mi perseguitano e io, fin da bambino, ho sempre avuto una paura matta degli ectoplasmi, sia quelli di livello proletario (la classica coperta bianca con due buchi per gli occhi e l'esclamazione "uhhh, uhhhhhh") sia quelli di livello 4 (per intenderci le entità che fanno la loro comparsa nel grandissimo american movie dell'84 "Ghostbusters"). Purtroppo non ho a disposizione accelleratori protonici per irradiare queste noiose ombre danzerine; tra le altre cose ho scoperto recentemente, dopo lunghi e talvolta estenuanti tentativi, che i fantasmi con cui ho a che fare resistono a diverse forme di armi che la pratica popolare aveva decretato veri e propri toccasana e antidoti: uscire tutte le sere per una birretta in compagnia o per strafogarsi di gelato, gettarsi anima e corpo in qualche attività "placebica" (leggere come un matto, passeggiare freneticamente per chilometri, cercare di prendere le cose superficialmente indossando maschere e facendo "quello che se ne frega", ecc..), riversare la rabbia su chi sta intorno, isolarsi in una specie di titanico disdegno verso il mondo, comprare compulsivamente oggetti (nel mio caso libri o dischi) che per qualche istante diano la felicità dell'acquisto e del possedere qualcosa di desiderato, ecc. Dunque questi rimedi "naturali" sono falliti.
E così ecco che questo senso di rabbia e impotenza, questa voglia di usare la lingua come una spada tagliente per rendere le ferite ricevute, questa volontà di deridere chi mi ha fatto star male, questa invidia (perchè sembra davvero che poi, chi fa star male, sia capace di "rifarsi una vita"), questo desiderio di "soddisfazione" nel senso cavalleresco del termine (ovvero vendetta), questo egoismo strutturale che mi fa pensare che i miei problemi, il mio soffrire, la mia incapacità di fidarmi di nuovo, il mio modo distorto di vedere me stesso e gli altri, siano il centro del mondo (la cosidetta teoria "jonathancentrica") ecco, dicevo, che tutto ciò (e questa potrebbe essere la punta dell'ice-berg) infesta la mia cameretta più segreta, dove alle pareti ci sono scaffali non pieni di libri ma di ricordi, affetti, visi, sentimenti e desideri.

Davide l'Antropologo, non so come, l'altro giorno deve aver intuito qualcosa (non lo dubitavo; è un lettore acutissimo e tra le righe di questo blog-flusso-di-coscienza deve aver compreso il "tra le righe" che le parole non esprimevano esplicitamente ma suggerivano con gli spazi bianchi e le frasi non scritte); così mi ha scritto una e-mail dove mi chiedeva come me la passavo.

Ho risposto.
Ovviamente a mio modo: quindi l'ho sommerso con righe e righe di pensieri, riflessioni e confessioni.

Anche Davide l'Antropologo ha risposto.
L'e-mail l'ho stampata e l'ho incorniciata (forse incorniciata no, ma è nella mia Bibbia inglese da buon vecchio reverendo - forse adesso mi dò questo titolo per scherzo ma avverto tutti i lettori che il mio sogno segreto è di diventare un giorno un "reverendo"a tutti gli effetti). La lettera elettronica conteneva in particolare una frase che si va ad aggiungere a una serie di altre frasi che, uno alla volta, i componenti della mia famiglia mi hanno rivolto, vedendo per l'appunto la mia cameretta ancora infestata dagli ectoplasmi di cui parlavo prima.
La riporto.

TUTTA LA VITA è questo..portare a Dio cose storte, e lui riesce a farci cose buone

Epifania!
Ho avuto momenti epici dopo aver letto queste parole. Mi sono tornate in mente un sacco di cose, tra cui la traduzione di un Salmo fatta da Eugene Peterson (nel suo meraviglioso lavoro in The Message) che dice qualcosa di simile. Non la ricordo alla lettera ma il senso era " Tu vedi, o Dio, i pezzi sparsi della mia vita; ma Tu mi ricomponi" (non mi darò pace finchè non ritrovo il taccuino o il foglio o la tavoletta di creta su cui l'avevo segnata). Non solo. Mi è venuto in mente anche quanto ho letto proprio ieri su un libro di Donald Miller (Blue Like Jazz - non religious thoughts on Christian Spirituality) e Davide L'Antropologo mi ha offerto la miglior traduzione in italiano che ci potesse essere; Don Miller dice infatti che la più grande potenzialità insita nel Cristianesimo è da trovarsi nella parola "repentance" - "the power of Christian spiritualty has always rested in repentance". Davide mi ha detto la stessa cosa con termini diversi. Leggere queste parole in un libro già fa effetto (io sono rimasto di stucco); sentirsele dire da una persona interessata alla tua vita è una esperienza ancor più vivida.

Mi spiego meglio circa la "repentance".

Quando mi rendo conto, come io mi sto rendendo conto attraverso le parole che sia la mia famiglia sia i miei amici mi rivolgono, del fatto che qualcosa non sta funzionando nel modo giusto e c'è da qualche parte un vaso rotto, l'unica cosa che posso fare per cambiare la situazione, è portare direttamente tutti questi pezzi a Dio confessando appunto la situazione in cui mi trovo: Lui ama ricomporre le vite sparpagliate in vasi interi. E non si stanca nemmeno quando, spesse volte, come accade nella quotidianità, il nostro vaso si rompe più e più volte.
Quello che ho imparato dalle parole di Davide è di lasciarmi amare, di perdonare, di sperimentare la riconciliazione con il genere umano e con me stesso; quello che ho ricevuto dalle sue parole è una lezione importante: vivere davanti a Dio non come un estraneo in casa, ma come un figlio, vicino al cuore del Papà.

Ecco quello che ho scritto nel mio taccuino in questi giorni (prima della sua e-mail e dopo la sua e-mail - e non penso sia ancora una versione definitiva di questi pensieri, diciamo che è solo un incipit):

"Ampliare il concetto di accettazione nell'amore. Tu pensi, erratamente, che per essere amato devi prima di tutto offrire e mostrare, far vedere chi sei; in definitiva far sfoggio delle piume come un peacock. Così sei condotto a non essere te stesso; fingi pretending to be waht you are not. Ricordi la frase di Hawthorne nella Lettera Scarlatta? Se fingi di essere una cosa con gli altri e sei te stesso solo quando sei solo, nella tua intimità, prima o poi corri il serio rischio di non sapere più distinguere tra il tuo viso e la maschera che indossi.
Devi imparare a fidarti nuovamente, a lasciare questi schemi mentali che prendono il loro spunto più dal commercio che dal relazionarsi correttamente e devi, soprattutto, imparare ad accettarti, accettare ed essere accettato. Stamattina hai avuto un ulteriore glimpse di ciò. Sei accettato così come sei. Dio non ti ama per quello che gli puoi offrire, per ciò che puoi produrre, non ti ama per i doni che hai o per le tue abilità, nè per i tuoi capelli, le tue orecchie, le tue mani e i tuoi piedi; Dio ti ama prima di tutto perchè sei, esisti, proprio così come Lui stesso ti ha fatto. Sei voluto da Lui, sei cercato, sei un figlio per Lui e per un padre il figlio è l'amato. Egli ama le tue particolarità; quelli che tu chiami in alcuni momenti pregi e in altri momenti difetti (le cose che lei non accettava o che gli altri non accettano o capiscono di te). Sei amato in quanto Jonathan, non in quanto Jonathan "il sognatore", Jonathan "lo scrittore", Jonathan "l'entusiasta", Jonathan "quello che mi fa comodo perchè è disponibile", Jonathan "la peste", Jonathan "il biondo" o Jonathan "quello che gli altri dicono lui sia", cioè tutti i soprannomi e i modi di vederti che gli altri hanno di te, caricati dalle loro aspettative. Sei amato dunque così come sei. Sei amato trinitariamente da Padre, Figlio e Spirito Santo; sei voluto , desiderato, accettato e invitato a prendere parte alla comunione intra-trinitaria. Ciò dovrebbe anche spingerti a rivedere il tuo modo di rapportarti alla gente e a chi ti sta intorno. Basta con metafore commerciali e con il tuo essere cavaliere solitario solo per vendicarti del fatto di non sentire completa accettazione da parte degli altri. Basta vivere con i confronti a cui lei ti aveva iniziato e di cui sei ancora vittima. Basta anche con il vittimismo, perchè quello che è stato è passato; ora hai davanti nuove prospettive, puoi rialzarti, puoi ricomporre il puzzle. Non tutte le persone sono uguali, non tutte ti vedono per quello che puoi dare; c'è chi ti ama per come sei e soffre a vederti in questo stato ferino (sembri per davvero un lupo ferito). Sii te stesso. Vivi nella dimensione dell'amore incondizionato. Accettati, accetta gli altri e lasciati accettare. Accetta il Primo Amore e lascia che la Sua dimensione rivoluzioni il tuo universo: non più jonathancentrico, ma Trinitocentrico o Cristocentrico. Solo così sarai in grado di vivere non incurvato su te stesso ma proteso verso il prossimo, colui che ti sta vicino, che ha bisogno di amore o desidera amarti."

Davide l'Antropologo è un fratello e un amico. Si scherza e si ride; si beve una birra da qualche parte per l'Italia (l'ultima a Nocera Umbra) e si parla di lavoro con la casa editrice e di come riuscire a portare ad altri questo messaggio di amore incondizionato da parte di Dio, messaggio che un giorno, per strade personalissime, ha toccato le nostre vite. Davide l'Antropologo però mi ha ricordato non solo questi momenti aurei che fanno parte dei ricordi che uno si tiene stretti, ma anche come questo messaggio deve essere il centro di gravità attorno al quale i nostri pianeti ruotano armonicamente e come questa rivoluzione "copernicana" possa influenzare le nostre vite trasformandole da pozzi a sorgenti.

Grazie. Forse un termine troppo semplice e "secco", ma detto in modo profondo e sincero. Sì, grazie.

E tutto quello che ho scritto dimostra come isolandomi rischio di perdere la benedizione che proviene non dal vivere in società (secondo le regole della mutua sopportazione imposte dalla legge o da una qualche forma di regolamento della serie "vivi e lascia vivere") ma dal vivere in comunità (dove la parola d'ordine è koinonia) quella stessa comunità dove vi sono caratteri diversi ma un medesimo modo di sentire, dove vi è idiosincrasia ma al contempo mutua compenetrazione d'animo, dove vi è personalità ma non individualismo, dove vi è particolarità vissuta nella reciprocità, dove c'è l'io e il tu (in mutua relazione), dove c'è amore che dona e accetta sapendo che, come sono solito ripetere citando John Donne, nessuno è nato per essere un'isola.

giovedì 7 agosto 2008

To ladyhawke - an expression of thanks

LadyHawke è un film, non proprio recente, in cui si narra di una storia di amore maledetta: su di essa pende un incantesimo malvagio, un sortilegio escogitato da quel mostro verde (come direbbe il caro William) chiamato invidia. I due amanti sono "sempre insieme, eternamente divisi": lui lupo di notte, lei aquila di giorno; lui bestia feroce e indomita sensibile solo alle carezze notturne, lei aquila meravigliosa accudita segretamente come il più prezioso dei tesori.

LadyHawke è la destinataria delle cento poesie d'amore provenienti dalla penna sempre eloquente e raffinata di Michele Mari. Un libro questo, "Cento poesie d'amore a Ladyhawke" (edizioni Einaudi), che è sempre sul mio comodino pronto a essere letto e riletto. Giusto per dare un assaggio della bellezza di questi componimenti, che danno nuova vita e una freschezza fuori dal comune a un tema poetico ampiamente tradizionale come l'amore, ecco quanto si legge ad un tratto del percorso poetico:

Tu non ricordi
ma in un tempo
così lontano che non sembra stato
ci siamo dondolati
su un’altalena sola.

Che non finisse mai quel dondolio
fu l’unica preghiera in senso stretto
che in tutta la mia vita
io abbia levato al cielo

Ladyhawke è il nome di una enigmatica quanto misteriosa, e forse per questo ancor più affascinante, dama che qualche giorno fa ha lasciato un commento a un mio post precedente. Ella cita Hikmet, e sembra che sia uno dei suoi poeti preferiti. Io allora leggo Hikmet, dopo che per tanto tempo ne avevo sentito parlare senza per altro entrare in quel rapporto affettivo che lega un lettore ai suoi scrittori preferiti. Stamani ho letto le sue poesie d'amore accompagnate dalle fotografie straordinarie di Doisneau. Ho ritrovato quella citata da Ladyhawke e ho scoperto una nuova ricchezza espressiva nella parole di questo poeta che si è ritagliato un posto importante nella mia biblioteca (sezione poeti e poesia). Tramite Ladyhawke ho anche scoperto qualcosa di perduto che in realtà vive silenziosamente sotto i nostri occhi se solo fossimo capaci di uscire dalla nostra egoistica miopia: l'universalità delle esperienze. La loro comunicabilità è incoraggiante; ritrovarsi "compagni d'armi" in certi percorsi forma connessioni eteree ma fortissime; improvvisamente nelle parole altrui ritrovo parte di me e l'altro interlocutore ritrova sè nella altrui esperienza. Lungi dall'essere un confronto tra due copie di una stessa realtà (come se due pittori cercassero di ritrarre lo stesso soggetto) qui si trova complementarietà, condivisione, silenzio d'ascolto e gioia.
Cara Ladyhawke il tuo commento mi ha regalato istanti di felicità. "Io non ti conosco - e tu non conosci me": è vero. In un mondo dove l'aspetto sembra essere tutto trovo ancor più meraviglioso che la prima cosa che si manifesti sia l'anima di una persona. Nello scrivere mi metto a nudo (anche se in questa operazione trovo della recalcitranza legata alla estrema possibilità di mettersi sotto la vergogna, soprattutto se si è timidi come chi scrive queste parole); nel ricevere il tuo commento gioisco nel sapere che esistono persone che sanno esporsi e condividere in maniera altrettanto candida ciò che, o nelle loro parole o attraverso il potente mezzo della letteratura, vivono, pensano e sono.
Scrivo questo post ringraziarti e scrivo pure per chiederti di non diventare assente. Sarò onorato di saperti lettrice e ,chissà, anche di scambiare idee, pensieri, parole nascoste.
Cordialmente
J.S.B.

lunedì 28 luglio 2008

I am a willow

Mi trafiggo.
Con suono
di corno inglese
che accompagna la mia
solitudine
di salice,
lungo il rivo.

Intorno a me
chiome rigogliose.

Io, piegato,
in perenne inchino,
ascolto il suono pastorale
mischiarsi ai gorghi
del fresco torrente.

Sento, dura,
su me,
crescere corteccia.

Tutto rami divento
e calvizia di foglie:
sul ceruleo di cielo
essa si staglia.

Sono potato;
mi rimangono solo
profonde radici.

J.S.B.

venerdì 25 luglio 2008

Lei, La città

L'estate per me non brucia di caldo, ma di impossibile. Sono un uomo di fantasia. Spesso vivo un mondo che scorre più veloce del tempo, un mondo dove io sono anticipatore del presente: cercando di correre spero di arrivare prima alla meta, consapevole però che il traguardo si raggiunge solo a tempo debito. Maratoneta inesperto che cerca di affrettare il passo, perchè, dopo tutto, la velocità aiuta a percorrere gli spazi più in fretta. Il percorso è però dannatamente lungo e la meta si nasconde e sembra scappare e allontanarsi mentro io cerco di avvicinarla. Ed ecco la disperazione del corridore: le gambe fremono nello sforzo agonistico, il cuore ormai non ha più un posto preciso nel corpo, perchè ora è nella spalla, ora nello stomaco, poi nei piedi e poi nella testa e poi, ad un tratto comincia a latitare e celarsi, fino a non farsi più sentire. Lungi dall'essere il preludio del tracollo, è solo un modo come un altro di reagire all'ennesima illusione, un modo di soffrire tacito e segreto..
Tutto questo perchè c'è lei.
Inconscia e inconsapevole di quello che ogni suo sguardo ha cominciato a provocare: inesplicabile reazione a catena. Non voluta, non pensata, non meditata. I, almost stony, am goin' to melt.
Lei che invece di donare salute (ovvero salvezza) come voleva Dante stilnovista, dona ansia, agitazione, frenesia, sforzo estremo. Non un porto di pace ma un mare furente dove, sballottato non posso fare altrimenti che opporre a questo maelstrom di pensieri un lume di razionalità. Qui non c'è sapere aude nè categorie aristoteliche: i moti di questa tempesta sono troppo tenaci e io, che pensavo essere esperto navigatore, mi trovo tossed and shaken.
Woe to me! La colpa è mia.
Il rischio di vivere in advance of time è proprio questo:non osservare bene i particolari che potrebbero darti alcune risposte chiave, non ponderare il costo, ma lanciarti come un paladino don chisciottesco, così preso come sono dal parto della mia mente e del mio desiderio.
Due sono le cose che illuminano certe mattine: i suoi occhi e una piccola pietra lucente fra le sue dita. La prima attira, la seconda trafigge impietosamente. La prima illumina, la seconda è come i lampi nel notturno che volge a tempesta: evidenzia soltanto che in arrivo vi è uno scroscio di pioggia pesante e fredda, stillicidio che scalfigge la pelle.
Resta ancora una via per uscire out of this tempest: to put myself aside, cioè, per rubare un espressione a Dante, far per viltade il gran rifiuto.
Non ci riesco.
Quella prima luce è più forte. Devo "confessare".
Lo farò a mio modo però: con uno scritto. Non come gli adolescenti che mancano di coraggio; ma con la voglia di dare forma alla tempesta stessa proprio nello scrivere. Torna qui la mia convinzione: la parola come riflessione, come catarsi, come formatrice, come momento di chiarimento. Forse questo piccolo componimento sarà sommerso da tante altre pagine o forse cadrà in un bottomless pit, forse non arriverà nemmeno a destinazione.
Come al solito, la voglia di dire e la vergogna di espormi (per tema d'essere canzonato o frainteso) si combattono incessantemente. Nel silenzio.
Sei bella, you walk in beauty, e come direbbe un grande poeta italiano, Michele Mari (che qui cito very loosely), ti riassumi nei tuoi occhi.. azzurri, grandi,letali.
Io, che ti ho vista così poco, ne sento già tutta la loro grazia, la loro forza, il loro essere così spietatamente attraenti. Ma questa è un'altra storia, che forse non ti giungerà mai all'orecchio.

Direttamente dai miei taccuini di aspirante scrittore.

Lei, La città

A causa tua
questa città è diventata
grande
più delle sue ridotte dimensioni
e
piccola
più di un rione di poche case.

Grande
perchè camminando
nelle sere estive,
fra i tanti volti che popolano
le vie,
non ti trovo.

Piccola
perchè essa si è ridotta
a te.


J.S.B. - scritta il 25/07/08

venerdì 4 luglio 2008

Riflessione

Seduto al tavolo, privo di ogni distrazione, mi trovo davanti ai libri.
Sono consapevole che le equazioni e i numeri danno pane per mangiare.

Ma le Lettere, oh sì, le Lettere, nutrono l'anima e sono la mia vita.

Aeronautical engineer by choice, Writer and humanist by vocation.

venerdì 27 giugno 2008

Scrivere

"Scrivo with a deep distrust and a deeper faith"
(Beppe Fenoglio)

So do I.

J.

lunedì 12 maggio 2008

haiku di gioia

L'haiku è una composizione essenziale, forse ermetica, ma profonda e piena di significato. Provo a usarlo: per esprimere stati d'animo.
J.

I

Sul fiore nudo
di nuovo petali.
E' primavera.

II

Pioggia lieve,
Rugiada sull'erba.
E' mattino.

III

Avvolto di stelle
Canto e danzo
al ritmo segreto.

IV

Occhi scuri.
I tigli nella via
spandono aromi.

martedì 22 aprile 2008

Papirers

Direttamente dai miei taccuini.

Blessings. J.


Non sono le cose di cui
non posso parlare
a riempire il mio animo di
inespresso timore.

E' ciò che conosco
che atterisce la mia mente;
così, come esile fuscello,
mi piego.

Ancora vedo prodigio
nel perenne fluttuare delle
nuvole.

Seduto su questi scalini
sono
scopritore
di aeree forme.

domenica 9 marzo 2008

Gould-fingers

Che Bach sia il mio compositore preferito è un fatto risaputo; ma è anche importante trovare un interprete che sappia far rivere la sua musica con quelle "good vibrations" che le armonie bachiane sanno produrre. Ecco allora che fa la sua apparizione lo straordinario, geniale e inimitabile Glenn Gould.
Su youtube ci sono diversi video a disposizione. Consiglio di cominciare con lo stupendo primo tempo del settimo concerto "fur klavier" in sol minore BW 1058 che si trova a questo link:

http://it.youtube.com/watch?v=wyOf_L4cNHc

Spero che anche voi siate trasportati e condotti a cantare così come il mitico Glenn era solito fare mentre suonava e intepretava.
Buon ascolto.

martedì 15 gennaio 2008

La statura torreggiante di Bach - la gioia nell'ascolto della passione secondo San Matteo

"Statura torregiante": mi piace questa definizione che il grande Barenboim dà della musica di Bach e del compositore stesso (citazione presa in prestito da "La musica sveglia il tempo", prezioso libro del direttore di orchestra di origini argentino-ebraiche).
Johann Sebastian Bach è da sempre il "mio" compositore. Non solo perchè la sua musica è semplicemente geniale, e qui potrei continuare con aggettivi su aggetivi tale è il mio amore viscerale, ma anche perchè pulsa di uno spirito profondamente legato alle grandi verità che la Riforma protestante, Lutero in primis, mise nuovamente in luce, dopo periodi di chiaroscuro non sempre esaltanti. Nella musica di Bach il Vangelo di Gesù Cristo stesso scorre tra le note che si inseguono l'una dopo l'altra sul pentagramma.
Come ha eccellentemente sottolineato Gianni Long, in un libro edito da Claudiana nel lontano 1985 (almeno questo la data che riporta l'ultima pagina del volume), nell'opera di Bach emergono tre tematiche principali connesse strettamente alla teologia di Lutero e a tre nuclei Biblici fondamentali (lo stesso dottor Martino darebbe più importanza alla parola della Scrittura; del resto il Sola Scriptura per lui non era soltanto un pio desiderio, ma un modus operandi intelligente, personale, sentito che rese unici i suoi sermoni e i suoi scritti); esse sono la dottrina della Trinità, la theologia crucis e il principio del Sola Gratia.
Non voglio qui dilungarmi in tanti particolari, musicali e teologici, anche se credo sarebbe cosa tremendamente interessante. Voglio solo condividere la gioia che provo nell'ascoltare un'opera unica come la passione secondo San Matteo (che sintetizza tutto questo in maniera eloquente e "mistica") di cui bastano le quattro battute iniziali,(che meraviglia il pedale di tonica martellante sopra il quale le voci degli archi e dei fiati si inseguono), di cui basta ascoltare il breve segmento in cui i soprani in ripieno cantano "O Lamm Gottes unschuldig", di cui basta in definitiva davvero poco per innamorarsi (e come esprimere ciò che veicola al cuore e allo spirito quell'aria dove il tenore intona "Ich will bei meinem Jesu wachen" preceduto da un tema dell'oboe a dir poco sensazionale?)

Inoltre le parole che il coro e i solisti intonano sono meravigliose; e qui spunta il più che felice connubio tra Bach e il suo "librettista", il mitico Picander (al secolo Christian Friedrich Henrici). Sempre per condivedere questa gioia musical-teologica, ecco un assaggio del testo cantato:

Venite, figlie, unitevi al mio lamento!
Guardate! - Chi? - Lo sposo.
Guardatelo! - Come? - E' come un agnello!
O Agnello di Dio immacolato,
ucciso sulla croce
,
Vedi! - Che cosa? - La sua virtù.
Sempre paziente,
sebbene deriso da tutti
.
Guardate! - Dove? - Alle nostre colpe.
Hai preso su di te le nostre colpe,
salvandoci dalla perdizione
.
Vedete come, nella sua misericordia,
Porta il legno della Croce!
Gesù abbi pietà di noi!

So che con queste mie parole non riesco a rendere giustizia alla profondità di questa musica (soprattutto se è musica intensa come quella proveniente dalla penna di Bach) perchè come dice il già citato Barenboim "essa è nel mondo, ma è anche fuori dal mondo"; d'altro canto non avevo nessun altro scopo se non aprire una parte del "flusso di coscienza in diretta da San Giuliano Mare" per condividere con altri una gioia forse piccola, ma significativa e preziosa.
E per non tradire lo spirito con cui queste note furono scritte, la miglior conclusione, sia come preghiera sia come ringraziamento sia come danza di felicità, consiste nel terminare tale "riflessione" con le parole con cui lo stesso Johann Sebastian concludeva le sue opere.

Soli Deo Gloria

martedì 8 gennaio 2008

CNN Breaking News - E' nato Davide (per chi non lo sapesse mio nipote)

Ci giunge ora un aggiornamento dalla città di Crema.

Tra le nebbie della pianura padana, un fascio di luce ha squarciato gli offuscati banchi d'aria; e poco dopo, con un acuto vagito, si è fatto largo un piccolo bimbo di nome Davide, richiamando l'attenzione di tutti:

"ehi ragazzi sono nato! un po' d'attenzione please".

Eh si! caro il mio "Davidino", l'attenzione non ti mancherà, stanne pur certo.

Sei la gioia,la corona, la vita dei tuoi genitori(mamma Sharon e papà Fabio),

la meraviglia dei tuoi nonni (nonna Loredana e nonno Maurizio),

l'esultanza dei tuoi bisnonni (bis-nonna Pina e bis-nonno Felice),

e sei il cuore di tuo zio Jonathan.

E come disse Wittgenstein, in altro contesto, "bisogna tacere" per non fare della retorica o per non rovinare una felicità mistica come questa che, se non fosse in parte comunicabile e manifestata attraverso l'esperienza che accomuna ogni uomo e donna, attraverso il linguaggio corporeo (danzare, saltare, dire sillabe senza senza, fischiare, abbracciare tutte le persone, ecc..) e attraverso qualsiasi altro mezzo non verbale di comunicazione, rasenterebbe l'inesprimibile.

venerdì 4 gennaio 2008

Torino - custa sì l'e' la mia sità



Torino.

Ci nacqui venticinque anni orsono e dopo qualche mese mi trasferì in questa ridente città di mare dove ora vivo, Rimini.

La "mia" città è però Torino; con lei ho un legame unico, segreto, fortissimo, sempre intatto.

Provengo da una famiglia piemontese e io stesso provo un certo orgoglio nel dirmi piemontese, e piemontese a tutti gli effetti; del resto "piemontesi si nasce e si rimane".

Non parlo il dialetto romagnolo e faccio fatica a capirlo.

Il "mio" dialetto è il piemontese, che ho sentito risuonare tra le pareti di casa fin dalla mia infanzia. La bis-nonna, o come la chiamavano io e mia sorella la "nonna-bis", parlava in piemontese con tutti, anche con i nipoti. I nonni chiaccherano ancora adesso amabilmente in piemontese, anche quando dalle chiacchere si passa alle discussioni e ai litigi. Mamma conserva ancora la cadenza, Papà la sua capacità di improvvisare conversazioni in dialetto e, oltre a questo, il vecchio cuore granata (a proposito .. Forza Toro!).

Io, beh io, l'ho già detto, ho un legame particolare con questa città. Amo i suoi lunghi viali, le sue piazze immense, le sue colline che la abbracciano, le montagne che guardano benigne da lontano, la Mole che brilla nella notte, il mite Eridano (così gli antichi chiamavano il Po), lo spirito risorgimentale, il fervore intellettuale, i palazzi, i rumori dei meccanismi delle fabbriche, il Valentino, la Crùseta, Superga, piazza San Carlo, i cannoli allo zabaione con le noci piemontesi tritate, il "bicerin" che Cavour amava sorseggiare, l'allegria di Gianduja, i parenti e gli amici.. già i nostri amati, con cui non solo abbiamo condiviso tempo insieme, all'ombra della meravigliosa città, ma con cui abbiamo condiviso le nostre emozioni e i nostri cuori (ricordo ancora le passeggiate per il centro, le serate passate nel mitico condominio di via Guala - le risate, i giochi, le chiacchere - il rito della "pizza" insieme al piccolo grande zio, ci sono le parole in piemontese con gli amici dei nonni, i ricordi dell'infanzia dei miei genitori, la vita dei nonni, della bisnonna, ecc..), e potrei continuare a dismisura, perchè nel "gomitolo" della memoria si susseguono immagini e ricordi seguendo un ordine emotivo e non razionale, una specie di malinconia perchè, come osserva il giovane Holden Caufield in una pagina del romanzo "The Catcher in the Rye", vorremo che le cose belle rimanessero, in un certo qual modo, sempre presenti.

Alla luce di quanto detto lascio la parola a chi con parole migliori ha saputo esprimere tutto ciò che ho cercato di dire tramite la semplice prosa. Sarà compito del buon vecchio Guido Gozzano (evviva la poesia crepuscolare!) parlare adeguatamente della "sua" città, la "mia" città. Guardè da stè bin

Torino

I.
Quante volte tra i fiori, in terre gaie,

sul mare, tra il cordame dei velieri,

sognavo le tue nevi, i tigli neri,

le dritte vie corrusche di rotaie,

l'arguta grazia delle tue crestaie,

o città favorevole ai piaceri!


E quante volte già, nelle mie notti

d'esilio, resupino a cielo aperto,

sognavo sere torinesi, certo

ambiente caro a me, certi salotti

beoti assai, pettegoli, bigotti

come ai tempi del buon Re Carlo Alberto...


"...se 'l Cônt ai ciapa ai rangia për le rime..."

"Ch'a staga ciutô..." - "'L caso a l'è stupendô!..."

"E la Duse ci piace?" - "Oh! mi m'antendôpà vaire... I negô pà, sarà sublime,

ma mi a teatrô i vad për divertime..."

"Ch'a staga ciutô!... A jntra 'l Reverendô!..."


S'avanza un barnabita, lentamente...

stringe la mano alla Contessa amica

siede con gesto di chi benedica...

Ed il poeta, tacito ed assente,

si gode quell'accolita di gente

ch'à la tristezza d'una stampa antica...


Non soffre. Ama quel mondo senza raggio

di bellezza, ove cosa di trastullo

è l'Arte. Ama quei modi e quel linguaggio

e quell'ambiente sconsolato e brullo.

Non soffre. Pensa Giacomo fanciullo

e la "siepe" e il "natìo borgo selvaggio".


II.


Come una stampa antica bavarese

vedo al tramonto il cielo subalpino...

Da Palazzo Madama al Valentino

ardono l'Alpi tra le nubi accese...

È questa l'ora antica torinese,

è questa l'ora vera di Torino...


L'ora ch'io dissi del Risorgimento,

l'ora in cui penso a Massimo d'Azeglio

adolescente, a I miei ricordi, e sento

d'essere nato troppo tardi...Meglio

vivere al tempo sacro del risveglio,

che al tempo nostro mite e sonnolento!


III.


Un po' vecchiotta, provinciale, fresca

tuttavia d'un tal garbo parigino,

in te ritrovo me stesso bambino,

ritrovo la mia grazia fanciullesca

e mi sei cara come la fantesca

che m'ha veduto nascere, o Torino!


Tu m'hai veduto nascere, indulgesti

ai sogni del fanciullo trasognato:

tutto me stesso, tutto il mio passato,

i miei ricordi più teneri e mesti

dormono in te, sepolti come vesti

sepolte in un armadio canforato.


L'infanzia remotissima... la scuola...

la pubertà... la giovinezza accesa...

i pochi amori pallidi... l'attesa

delusa... il tedio che non ha parola...

la Morte e la mia Musa con sé sola,

sdegnosa, taciturna ed incompresa.


IV.


Ch'io perseguendo mie chimere vane

pur t'abbandoni e cerchi altro soggiorno,

ch'io pellegrini verso il Mezzogiorno

a belle terre tiepide e lontane,

la metà di me stesso in te rimane

e mi ritrovo ad ogni mio ritorno.


A te ritorno quando si rabbuia

il cuor deluso da mondani fasti.

Tu mi consoli, tu che mi foggiasti

quest'anima borghese e chiara e buia

dove ride e singhiozza il tuo Gianduia

che teme gli orizzonti troppo vasti...


Evviva i bôgianen... Sì, dici bene,

o mio savio Gianduia ridarello!

Buona è la vita senza foga, bello

godere di cose piccole e serene...

A l'è questiôn d' nen piessla... Dici bene

o mio savio Gianduia ridarello!...

mercoledì 2 gennaio 2008

Saggezza antica per l'anno nuovo ovvero "Come non essere assorbiti dalla "folla" e mantenere la propria identità"

Tra le tante cose che sono state rinvenute presso il sito archeologico di Sageste, è stata trovata anche una tavoletta di bronzo datata quinto secolo a.C.; su di essa, in greco, si legge un' antica poesia scritta dalla penna di un anonimo (per noi) autore.

La pubblico così come l'ho letta nella traduzione del professor Diego Ceccarelli dell'Università di Palermo; la pubblico appunto nell'augurio che l'anno nuovo appena iniziato possa essere vissuto all'insegna dell'identità e della dignità che Dio ha donato a ogni essere umano: nessun conformarsi alla massa, nessun piegarsi alle richieste delle folle, nessuna svendita della verità per la gloria di una sola ora, ma la grazia di manifestare amore e verità nei pensieri, nelle parole, nelle azioni.

Dio ci benedica.



"Chi segue la folla non andrà più lontano della folla.

Chi cammina da solo

può scoprire luoghi in cui

nessun altro è stato prima.

Non si può vivere creativamente

senza incontrare difficoltà,

perchè l'originalità provoca il disprezzo,

e la conseguenza spiacevole del trovarsi

più avanti rispetto al proprio tempo,

è che quando gli altri capiranno

che avevate ragione, diranno che ciò

è sempre stato evidente.

Ci sono due possibili scelte di vita:

potete sparire nella corrente

oppure potete distinguervene.

Per farlo dovete essere differenti.

Per esserlo dovete diventare come nessun

altro, tranne voi, riesce ad essere."