lunedì 17 novembre 2008

Sfoghi

Semplicemente nero su bianco. Dai miei taccuini: due "non-so-nemmeno-come-chiamarle". Diario di un cuore in movimento. Rappresentazioni di un'anima inquieta CREATA per la pace. E come Hopkins mi domando: "When will you ever, Peace, wild wooddove, shy wings shut, your round me roaming end, and under be my boughs?"
Regards and blessings
J.

HO COMINCIATO UN NUOVO TACCUINO

"Ho cominciato un nuovo taccuino
ma non una nuova pagina della mia vita:
scrivo ancora di lotte non risolte.

La ferita non recede nè si satura
ma, infetta e imputridita,
si sazia di pezzi di me,
lentamente.

La carne necrotica non dà più
sensazione di dolore;
l'anima al contrario
amplifica l'agonia risuonando.

Talvolta lo spasmo si assopisce
e un abbozzo di sorriso sembra sottolineare
la speranza di una guarigione.

Talvolta, improvvisamente, mi guardo
allo specchio e vedo
l'uomo interiore deformato,
mentre i miei occhi fissano
i segni della crescita del corpo e
del suo invecchiamento.

Curo assiduamente l'esterno della coppa
eppure sento l'aceto al suo interno.
Una volta credo fosse vino buono.

IO SONO CHARLIE BROWN - una riflessione

La cassetta delle lettere
era vuota oggi.
Non v'erano neppure
i tediosi pamphlet
dai convenientissimi affari.

Vero Charlie Brown
ho scosso il mio ciuffo di capelli.

Chino la mia testa,
Malinconico,
nel guantone di pelle.

Sarà per un'altra volta
ragazza dai capelli rossi.

venerdì 7 novembre 2008

Le Braccia e le Mani di Dio - Come antropomorfismi, metafore e immagini ci invitano ulteriormente alla comunione con il Dio Trino

Lettura
Gal. 4:4-6, Deut. 33:27, Ebr. 2:10-14

La poesia non è il linguaggio della spiegazione oggettiva ma il linguaggio dell’immaginazione. Essa fornisce un’immagine della realtà in modo tale da invitarci a partecipare in essa. Non abbiamo più informazioni dopo aver letto una poesia; abbiamo più esperienza. Non è un “esame di quello che accade ma un’immersione in ciò che accade” (E. Peterson – Reversed Thunder)

Braccia.
Braccia muscolose e allenate, braccia esili e intellettuali, braccia glabre e braccia pelose, braccia su cui la camicia è arrotolata e braccia su cui la camicia è ben abbottonata, braccia abbronzate e braccia bianche come il latte, braccia di adulto e braccia di bambino, braccia ferite e braccia dalla pelle liscia, braccia sudate e braccia profumate, braccia su cui il duro lavoro lascia segni e braccia su cui l’unico segno è l’impronta della scrivania, braccia di adulto, protettive, braccia di bambino, in cerca di protezione, braccia che stringiamo intorno a chi amiamo, braccia che ci stringono per dire che siamo amati,braccia capaci di alzare pesi e braccia capaci di cullare, braccia di uomo e braccia di donna, braccia umane e braccia di Dio.

Braccia di Dio.

Eterne, forti e potenti eppure anche tenere e delicate, “spirituali” e “materiali”, talvolta come nascoste e talvolta come tangibili, eppure braccia sempre presenti perché ciò che l’occhio non vede il cuore sa; braccia che reggono gli universi e i mondi e braccia che accolgono un figlio prodigo al suo ritorno; braccia che erano presenti prima ancora che il mondo fosse in un tempo chiamato eternità, braccia che si stendono verso un tempo futuro chiamato eternità, braccia del Dio degli eserciti e braccia del Dio Pastore, dunque braccia di Dio con tutte le sfumature e i colori che questa immagine ha.
Mosè conosceva quelle braccia. Le aveva viste operare nella sua vita e nella vita del popolo di Israele. Braccia che non si conoscono come in un manuale di anatomia, studiandole e definendo i muscoli e i nervi: così sono braccia asettiche, intellettualizzate, ma ferme come quelle di un manichino; piuttosto braccia che si conoscono per esperienza e contatto con esse, braccia che si vogliono definire per noi e rivelarsi, braccia che seguono l’impulso di un sentimento eterno di comunione, dimora, braccia mosse dal cuore di Dio.
Ecco perché nel suo canto del cigno il profeta con cui Dio trattava faccia a faccia come con un amico intimo, in un impeto immaginifico e ispirato, guarda con gli occhi lucidi al popolo e scorge qualcosa che soltanto gli occhi di un profeta possono vedere. Dietro ai volti delle persone, a quella folla di uomini, donne e bambini, c’era molto di più di Israele stesso, molto più di vesti sgargianti, di tende, di cibo, di scudi, di barbe e copricapo, di monili e profumi. Dietro a tutto questo c’era Dio stesso:

Il Dio eterno è il tuo rifugio
E sotto di te stanno le braccia etern
e”
(Deuteronomio 33:27)

Mani.

Mani bianche e mani scure, mani gialle e mani nere, ma la cui vita proviene da uno stesso sangue rosso, mani callose e mani curate, mani piagate e mani morbide, mani forti e mani esili, mani che disegnano e mani che costruiscono, mani che schiaffeggiano e mani che accarezzano, mani grandi e mani piccole, mani che si stringono e mani che si separano, mani che benedicono e mani che insultano, mani che sferruzzano e mani che scrivono, mani che eseguono movimenti coordinati su tasti ora bianchi ora neri e mani che hanno scolpito quegli stessi tasti, mani nude e mani ornate da anelli, mano destra e mano sinistra, mani che si alzano e mani che stanno ferme, mani di uomini e mani di Dio.

Mani di Dio.

Eterne, le cui dita hanno disposto negli spazi siderei le stelle e gli astri e le cui dita hanno toccato cuori di pietra, mani pure eppure che non hanno paura di sporcarsi toccando lebbrosi, malati, peccatori, uomini e donne, me e te, mani senza guanti, mani che sostengono, mani che agiscono, mani che proteggono, mani che stringono a sé, mani che custodiscono, mani che donano, mani che hanno aperto una via per cui camminare e mani che indicano il sentiero da percorrere, mani che hanno scritto la storia e mani che creano una nuova storia nella vita di ogni essere umano, mani fedeli e piene di promesse, mani sui cui palmi sono scolpiti i ritratti di persone come perenne ricordo d’amore, mani sui cui palmi, fra visi e volti, c’è il segno di chiodi, mani che reggono l’universo eppure mani ferite, mani di Dio con tutto quello che quest’ulteriore immagine comunica in tutta la sua grandeur.
Mosè conosceva quelle mani. Quando sul monte Dio fece passare davanti a Mosè tutta la Sua bontà proclamando la Sua gloria (Esodo 33:19), la mano di Dio coprì il decano dei profeti; messo in una buca di un masso, Mosè sentì su di sé la mano di Dio.
Quelle stesse mani che avevano operato prodigi; quelle stesse mani che con un dito scrissero su tavole di pietra e quelle stesse mani che scrivono oggi su tavole di carne chiamate cuori. Mani sempre tese verso l’uomo, mani che si sono fatte toccare dalle nostre mani (cfr. 1 Giov. 1:1-4), mani che, come Giovanni ci dice nella visione grandiosa che contemplò, asciugheranno le nostre lacrime; mani che come spezzarono del pane sulla via per Emmaus per due discepoli lo spezzeranno ancora per molti altri quando saremo a tavola con Lui.

Antropomorfismi.

Questo il nome tecnico che gli studiosi danno a immagini come queste: Dio con braccia, con piedi, con mani, con viscere e cuore. Spesso trascurate o prese soltanto come metafore esse sono invece l’anticamera al più grande “antropomorfismo” a cui si assiste nella rivelazione biblica: l’incarnazione. Non metafora, ma Cristo perfetto Dio e perfetto uomo.
Questo modo che Dio ha di parlare alle Sue creature ha origine nel Suo desiderio di comunicare e rivelarsi non in maniera distaccata e asettica, come se i Suoi attributi potessero essere oggetto di critica e analisi metodologica, ma soprattutto in maniera personale e intima. Non solo. Questo modo di parlare ha origine in quel desiderio tipico del “Circolo Trinitario” di chiamare all’interno della “comunità del Dio Trino” l’uomo. Dio ci vuole includere in quel dialogo e in quella relazione che sussiste da ogni tempo tra Padre, Figlio e Spirito Santo. Le Sue braccia e le Sue mani sono protese verso di noi annunciando questo invito.
E siccome la teologia è lo studio di Dio, del Suo carattere e delle Sue vie, non sorprende che nel corso del tempo qualcuno cogliesse con grande efficacia queste immagini di braccia e mani, non solo facendolo proprie nel cuore ma anche facendocele riscoprire con voce al contempo biblica, profetica e poetica. La teologia diventa così una ricerca all’interno della rivelazione (“cerchiamo come chi sta per trovare, troviamo come chi sta per cercare” diceva Agostino), riscoprendola di volta in volta nella sua purezza originale, purezza che spesso rischiamo di perdere perché presi piuttosto dalle nostre agende, dalle nostre preoccupazioni, dai nostri piani. Questa volta la voce che si alza è quella di un apologeta, cioè di un teologo che dedicò la sua vita alla difesa della fede Cristiana. Ireneo di Lione usa una metafora straordinaria che preserva la ricchezza della metafora biblica stessa. Dio è intervenuto nella storia umana attraverso due mani, cioè attraverso la Parola e lo Spirito, attraverso Cristo (la Parola incarnata) e lo Spirito.
Il Nuovo Testamento concordemente ci spiega in modo estensivo questa metafora che affonda le sue radici nell’Antico Testamento e che Ireneo colse nuovamente qualche anno più tardi nella sua difesa della fede dagli attacchi di Marcione e dello gnosticismo.
Al fine di condurre molti figli alla gloria, l’autore anonimo dell'epistola agli Ebrei, ci dice che “poiché i figli hanno in comune sangue e carne, Egli [Cristo cioè] pure vi ha similmente partecipato”(Ebrei 2:10, 14). Paolo stesso fa eco a questa melodia dicendo che “quando giunse la pienezza del tempo Dio mandò Suo figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare quelli che erano sotto la legge, affinchè noi ricevessimo l’adozione” (Galati 4:4-5).

La “prima mano”: Cristo incarnato. Egli che prende su di sé la natura umana e compie l’opera di redenzione per l’uomo.

Paolo stesso ci ricorda poi che “avete ricevuto lo Spirito di adozione, mediante il quale gridiamo Abbà, Padre” (Romani 8:15). Affermazione di cui troviamo ulteriore conferma nuovamente in Galati dove l’apostolo scrive che “perché siete figli Dio ha mandato lo Spirito del Figlio Suo nei nostri cuori, che grida Abbà, Padre” (Galati 4:6).

La “seconda mano”: lo Spirito Santo nei nostri cuori, Colui che produce in noi la vita di Cristo e agisce in noi per trasformarci, sigillandoci come proprietà speciale di Dio.

“In Cristo, la Parola fatta carne, e nello Spirito, siamo condotti al Padre attraverso l’intercessione di Cristo e l’intercessione dello Spirito. Siamo sollevati dalle “braccia eterne”” (James B. Torrance, Community, Worship and the Triune God of Grace, IVP) .

Le immagini di mani e braccia di Dio hanno così la loro massima espressione non primariamente sul piano metaforico (per quanto grandiose e profonde siano queste immagini), ma su un piano reale e tangibile. Le braccia di Dio e le Sue mani non sono solo antropomorfismi da gettare in pasto ai critici letterari e agli esegeti, ma sono il modo che Dio ha di attirarci a sé e di arrivare a noi.
Guardando la vita ci è offerta la possibilità di andare con lo sguardo oltre all’immediato e scorgere dietro a vestiti, sguardi, volti, barbe, capelli lunghi, libri e tomi, programmi di studio, progetti, numeri di telefono ed elenchi, la stessa cosa che Mosè vide, che Paolo esponeva con tanto pathos, che il misterioso autore della lettera agli Ebrei scrisse ad amici in difficoltà e che Ireneo, decine d’anni espose nuovamente nella sua poetica apologia: dietro a noi stanno le braccia e le mani di Dio.

Eterne.

Forti.

Piene di grazia.

Cristo e lo Spirito.

Dio con noi. Dio per noi. Dio in noi.

Dio Padre, Dio Figlio, Dio Spirito Santo.

Vivere sempre tra le Sue braccia, seduti nell’incavo delle Sue mani, vicino al Suo cuore, sotto il Suo sguardo, all’ombra del Suo sorriso.

sabato 1 novembre 2008

Possa la Sua polvere avvolgerti

Alcune riflessioni di un giovedì sera di qualche settimana fa.

Blessings.

J.

Luca 5:27-32

“ […] un monumento dice soltanto “sono arrivato fin qua” mentre un’orma dice “ero qui quando sono ripartito” (W. Faulkner)

Levi sedeva al banco delle imposte come ogni giorno, esercitando la sua impopolare professione. Egli era un impiegato dell’ufficio delle imposte e dunque una persona la cui figura ricordava costantemente ai suoi connazionali come Israele fosse una nazione soggetta, politicamente, all’impero Romano. Non solo. Levi era una di quelle persone che la gente cercava con tutte le forze di evitare: il Talmud stesso definiva gli esattori di tasse, forse con qualche ragione, dei “rapinatori”.

Gesù era appena uscito dalla casa in cui aveva guarito un uomo paralitico e stava, probabilmente, uscendo dalla città quando incontrò Levi. Lo trovò mentre egli stava esercitando le sue contestate mansioni.

Gesù lo notò. Lo guardò e gli rivolse una semplice parola: “Seguimi”.

La risposta di Levi fu sorprendentemente rapida. Egli lasciata ogni cosa (un particolare che Luca sottolinea con gran vigore rispetto agli altri sinottici), si alzò in piedi e si mise a seguirlo.

Si mise a seguirlo.

Questa espressione così concisa è molto densa e ricca di implicazioni. Per Levi, significò perdere in maniera definitiva il proprio posto di lavoro. Una volta abbandonata quella postazione egli non poteva più tornare indietro: quel gesto era un biglietto di sola andata, un’azione definitiva. Egli lasciò dietro alle spalle le sue ricchezze. Solitamente infatti, gli esattori di tasse, per non parlare poi dei capi di distretto come Zaccheo, erano persone benestanti con un letto soffice sotto il quale stavano tante tintinnanti monete. Alzarsi e seguire Gesù implicava la rinuncia a tutto questo, che da qualche anno era stato il mondo del puntuale esattore di tasse.

Ciò che però colpisce ancora più con vigore in questo brano è il verbo che Luca usa per esprimere ciò che fece Levi. Si mise a seguirlo, cioè Levi cominciò quel giorno a seguire Gesù. Akolutheo è un verbo molto bello, usato primariamente nei Vangeli: riferito alle folle è usato in senso neutrale e non implica il formarsi di qualche convinzione. È forse il seguire delle folle e delle masse, fatto più di curiosità che di passione personale. Quando però è riferito a singoli individui esso prende il significato di “seguire in rapporto intimo”; esso sottolinea l’inizio di quel “cammino lungo e in una sola direzione” che è noto come l’essere discepoli.

Levi aveva appena mosso il primo passo su quella strada che può essere percorsa soltanto in avanti.

L’immagine che questo verbo e questa azione suggeriscono è di straordinaria potenza perché si inserisce nel contesto dell’epoca con una dimensione nuova e fresca. Nella cultura di quei tempi era pratica comune scegliere un rabbi che diventasse la propria guida. Scelto il rabbi, il discepolo aveva una sola occupazione: ricevere più nozioni e insegnamenti possibili dal proprio maestro. Questo aspetto era così sentito che il maestro era seguito dovunque: mentre camminava, mentre parlava con altri, mentre comprava la frutta e la verdura, mentre svolgeva le faccende domestiche e addirittura mentre andava in bagno! La paura era quella di perdere una eventuale “perla” di saggezza o di non imparare una nuova preghiera. Si narra nel Talmud di una caso estremo in cui un discepolo scivolò di soppiatto nel letto del proprio rabbi e si pose tra moglie e marito, sotto le coperte. Al rimprovero del maestro egli rispose “Anche questa è Torah e devo imparare”. A parte i casi estremi, si comprende l’importanza di questo atto di seguire il proprio rabbi da una benedizione che uno studioso di Antico Testamento, Ray van der Laan, ci riporta:

“possa tu esser sempre ricoperto dalla polvere del tuo maestro”.

Possa cioè la polvere dei piedi del tuo maestro, alzata dai suoi sandali, coprire le tue vesti e avvolgerti, perché ciò significa che lo stai seguendo mentre lui cammina, significa che i tuoi occhi sono puntati su di lui, che le tue orecchie sono protese e pronte ad ascoltare ogni sua parola.

Levi cominciò questo tipo di cammino.

Fu Gesù, il Maestro, che cercò Levi. Gesù affermò di esser venuto specificatamente e volontariamente a chiamare l’esattore di tasse. Infatti, ai farisei che come al solito erano scioccati e scandalizzati dal fatto che il Signore si associasse con gli emarginati della società e i reietti, Gesù rispose: “Io non sono venuto a chiamare dei giusti, ma dei peccatori a ravvedimento” (Luca 9:32).

Così è anche di me e di te. E’ il Maestro che è venuto a cercarci e ci ha chiamato, lì dove eravamo: seduti al tavolo delle imposte, seduti davanti al bancone di un bar mentre ammazzavamo il tempo bevendo e cercando di annegare le domande e le angosce in un buon litro di birra, vestiti di abiti eleganti mentre soddisfatti dei nostri conseguimenti sentivamo forte il vuoto che essi portavano, bagnati di pianto mentre i nostri fallimenti si facevano sempre più pesanti e insopportabili, tesi come corde di violino mentre cercavamo di ottenere il massimo dalla vita, pieni di domande mentre la realtà ci appariva difficile e complicata. Proprio lì Gesù ci notò e disse: “Seguimi”.

Così è anche di te e di me per ciò che concerne non solo l’inizio del cammino ma anche il suo proseguimento.

In questa chiamata c’è tanto.

C’è il Suo amore, il Suo perdono e la Sua grazia, perché seguire Gesù significa seguire i Suoi passi fino alla città di Gerusalemme, verso la quale Egli si pose risolutamente in cammino (cfr. Luca 9:51): sul monte del Calvario, appena fuori dalla città, Egli morì sulla croce per il nostro peccato.

C’è la speranza e la vita eterna che Egli offre perché seguire Gesù significa anche, seguire la corsa di Pietro e Giovanni verso il sepolcro e scoprire che il Principe di Vita non poteva essere trattenuto dalla morte : quella stessa vita è la vita che ha chiunque crede in Lui.

C’è sicurezza e forza quotidiana perché seguire Gesù significa salire sul monte insieme ai discepoli, qualche istante prima della Sua ascensione, per ricevere le Sue parole, il Suo incoraggiamento, la Sua pace. “Ogni potere mi è stato dato, andate e fate miei discepoli. Io sono con voi.”(Matteo 28:18-20).

C’è una qualità di vita traboccante, fresca e indomita, perché seguire Gesù significa seguire le orme che Lui ha lasciato e che scrive sui nostri cuori mediante lo Spirito Santo .

C’è un attesa fatta non di rassegnazione e fatalismo, ma di impegno, amore, costanza, e gioia, perché seguire Gesù in questo lungo cammino significa partire da un Gerusalemme per arrivare ad un'altra Gerusalemme, splendente, gloriosa e “celeste”, dove Lui mi attende e desidera.

Il cammino non è facile. Gesù non lo ha mai nascosto; più volte parlando ai Suoi discepoli di ogni epoca ha detto cosa implicasse questo: rinunciare a sé stessi, prendere la propria croce, seguirlo dovunque le sue orme portino. Ma il Maestro cammina al mio e al tuo fianco. Ed Egli, mentre camminiamo, dischiude sempre più il Suo cuore: questo cammino è un cammino di amore, perdono, grazia, speranza, vita eterna, forza quotidiana, gioia, condivisione. Questo cammino è un cammino che dà alla vita il suo vero significato. Questo cammino è quello al quale il Maestro chiama tutti gli uomini e le donne.

Lascia che la polvere del Maestro ti ricopra.

Segui le Sue orme.

Ascolta le Sue parole.

Parlagli.

Lascia che il Maestro ti guidi, passo dopo passo.

Del resto questo è l’unico sentiero che porta a Casa.