mercoledì 17 ottobre 2007

The Comrade God

Recentemene ho avuto l'onore di parlare su una tematica davvero ardua e complessa: ovvero il rapporto intercorrente tra la sofferenza e Dio. Ho potuto fare affidamento sulla solidità e l'esperienza di alcuni "giganti". Uso volutamente il termine "giganti" per riferirmi a una bellissima frase di Bernardo di Chatres, copiata poi dal grande Isaac Newton (si anche i geni ogni tanto copiano; vedi il saggio di Robert K. Merton "Nani sulle spalle dei giganti", edizioni Il Mulino):
"Siamo come nani sulle spalle dei giganti, sì che possiamo vedere più cose di loro e più lontane, non per l’acutezza della nostra vista, ma perché sostenuti e portati in alto dalla statura dei giganti". Non avrei mai potuto vedere chiaramente se non avessi riposato sull'esperienza di questi uomini di Dio del passato e del presente.

Sicuramente uno di questi giganti è il grande "Woodbine Willie", cioè Geoffrey Studdert Kennedy, cappellano militare nell'esercito inglese di stanza sul Fronte Occidentale.
Tra i diversi libri che ha scritto, il suo meraviglioso "The Unutterable Beauty" (La bellezza inesprimibile) è tra i miei preferiti di sempre. Esso consiste di una straordinaria collezione di poesie scritte da Studdert Kenedy riguardanti la sua esperienza personale al fronte.
Senza aggiungere ulteriori notizie (magari in un altro post parlerò più dettagliatamente del buon Woodbine Willie) riporto qui di seguito la eccezionale "The Comrade God" ( Il Dio commilitone). Per ora riporto il testo in inglese. A breve includerò anche una traduzione in italiano. Per il momento godetevi questo pezzo di letteratura capolavoro e riflettere insieme a me sull'ultima stanza della composizione (quella che più d'ogni altra mi ha fatto saltare sulla sedia e sta tenendo la mia testa occupata in questi giorni con pensieri di riconoscenza e meraviglia)

THE COMRADE GOD

THOU who dost dwell in depths of timeless being,
Watching the years as moments passing by,
Seeing the things that lie beyond our seeing,
Constant, unchanged, as ions dawn and die;

Thou who canst count the stars upon their courses.
Holding them all in the hollow of Thy hand,
Lord of the world with its myriad of forces
Seeing the hills as single grains of sand;

Art Thou so great that this our bitter crying
Sounds in Thine ears like sorrow of a child?
Hast Thou looked down on centuries of sighing,
And, like a heartless mother, only smiled?

Since in Thy sight to-day is as to-morrow,
And while we strive Thy victory is won,
Hast Thou no tears to shed upon our sorrow?
Art Thou a staring splendour like the sun?

Dost Thou not heed the helpless sparrow's falling?
Canst Thou not see the tears that women weep?
Canst Thou not hear Thy little children calling?
Dost Thou not watch above them as they sleep?

Then, O my God, Thou art too great to love me,
Since Thou dost reign beyond the reach of tears,
Calm and serene as the cruel stars above me,
High and remote from human hopes and fears.

Only in Him can I find home to hide me,
Who on the Cross was slain to rise again;
Only with Him, my Comrade God, beside me,
Can I go forth to war with sin and pain.

lunedì 8 ottobre 2007

Il più grande Maratoneta di tutti i tempi

L'autore della lettera agli Ebrei è uno dei più grandi scrittori Cristiani dell'antichità. Ogni volta che leggo questa epistola (e accade molto spesso, visto che essa contiene alcuni dei mie passi biblici preferiti, che tanto mi aiutarono nella mia "notte nera dell'anima"- vedi alla voce crisi depressiva)rimango profondamente toccato dalla grandezza del testo stesso e dalla tremenda profondità dei concetti espressi. La Cristologia di questo scritto, cioè le cose riguardanti la persona di Gesù Cristo, ha aiutato, incoraggiato, spronato, commosso, toccato, parlato e cambiato tantissime vite nel corso della millenaria storia del Cristianesimo. L'autore di questo scritto era un pastore-teologo; non era un uomo che viveva in una torre d'avorio, isolato dai problemi quotidiani dei suoi fratelli e delle sue sorelle; egli scrive a una comunità di persone che prima di tutto erano per lui amici, gente che conosceva e amava, uomini e donne che in passato avevano sperimentato già “una lotta lunga e dolorosa” (Ebrei 10:32-34; probabilmente ci si riferisce ai Cristiani ebrei che furono espulsi da Roma in seguito all'editto dell'imperatore Claudio - per maggiori dettagli si può consultare il commentario capolavoro di William L. Lane in due volumi edito nella collana Word Biblical Commentary). Dall'atmosfera generale del testo si comprende come un nuovo periodo di persecuzione e prova stesse attendendo questi Cristiani a cui l'ignoto autore scrive (questa nuova ondata di violenza nei confronti dei Cristiani aveva a che fare probabilmente con la politica dell'imperatore Nerone).
I destinatari dell'epistola avevano bisogno di incoraggiamento, avevano bisogno di ispirazione e di motivazioni. Il dolore e la sofferenza erano reali, così come i dubbi, le domande e le paure. Alle persone che stavano affrontando questa grande crisi, il pastore teologo propone non una risposta fatta di parole e teorie, ma una risposta consistente in una Persona. In Ebrei 12:1-3 si trova così scritto:

"Anche noi, dunque, poiché siamo circondati da una così grande schiera di testimoni, deponiamo ogni peso e il peccato che così facilmente ci avvolge, e corriamo con perseveranza la gara che ci è proposta, fissando lo sguardo su Gesù, colui che crea la fede e la rende perfetta. Per la gioia che gli era posta dinanzi Egli sopportò la croce, disprezzando l’infamia, e si è seduto alla destra del trono di Dio. Considerate perciò colui che ha sopportato una simile ostilità contro la sua persona da parte dei peccatori, affinché non vi stanchiate perdendovi d’animo."

In uno dei passagi più celebri e più evocativi del Nuovo Testamento, la vita Cristiana viene presentata come una maratona; una corsa lunga, che richiede disciplina, che domanda allenamento e che spesso coinvolge la sofferenza. I fasci muscolari sono tesi, i nervi scattanti, la concentrazione elevata, il cuore pompa con ritmo regolare e martellante, il sudore scorre abbondante, l'acido lattico comincia a pungolare i muscoli stessi, ma il traguardo è davanti agli occhi: non importa come si è cominciata la gara, ciò che davvero conta è finire bene. Per fare questo, cioè per finire bene, i Cristiani a cui l'epistola è rivolta, dovevano imparare non solo ad essere costanti ma a guardare a Qualcuno che avrebbe potuto produrre in loro perseveranza anche a fronte della persecuzione.

L'autore dello scritto allora presenta il più grande Atleta di sempre. È Gesù.
Usando il Suo nome personale si vuole porre l’accento, probabilmente, sull’umanità di Cristo e in modo speciale sul Suo cammino di ubbidienza perseverante, sulla Sua volontaria umiliazione, sul Suo sopportare dolore, angoscia, il peso della solitudine e la vergogna della croce per amore dei peccatori (tutti temi che per altro sono sviluppati nell'epistola agli Ebrei). Già in altri passaggi della lettera, le considerazioni concernenti l’incarnazione di Gesù Cristo avevano avuto uno scopo pastorale: uno dei punti principali che l’epistola sottolinea è come Dio comprenda l’uomo, e come comprenda le situazioni in cui egli si trovi, siano esse di tentazione o di difficoltà, siano esse di pace o di persecuzione, siano esse di ogni tipo, perché la seconda persona della Trinità, Gesù Cristo, si è abbassato, è sceso sulla terra, ha camminato come un uomo, ha patito tutto quello che io e te patiamo e viviamo durante la nostra vita. Per questo troviamo scritto “poiché Egli stesso ha sofferto la tentazione, può venire in aiuto di quelli che sono tentati”; per questo troviamo scritto che “benché fosse Figlio, imparò l’ubbidienza dalla cose che soffrì (Ebrei 2:18, 5:8). Gesù è presentato in particolare in tre modi che si rifanno ancora una volta alla metafora della maratona e dell'atleta. (1) Cristo è il “prodromos”, cioè il precursore, colui che, secondo una etimologia del termine, dà il ritmo della corsa a tutti gli altri; (2) Cristo è l’ “archegos”, colui che crea la fede, o meglio ancora il campione delle fede, l’iniziatore, il capo (il termine è molto ricco e può benissimo conferire al contempo questa molteplicità di significati); Egli è proprio Colui al quale i lettori dell’epistola sono chiamati a rifarsi, seguendone le orme, poiché è il Suo esempio che diventa il metro di paragone per la vita Cristiana; (3) Cristo è infine il “teleiotes” (un termine che probabilmente è stato cognato appositamente dall’autore della lettera) cioè Colui che porta a compimento, che finisce, che rende perfetta la fede, nella doppia sfumatura di essere la persona in Cui la fede ha raggiunto la sua massima espressione e la Persona che opera il perfezionamento nei Suoi discepoli, rendendoli simili a Lui.
Nel ricordare ai suoi lettori questi aspetti della persona di Gesù Cristo, l’autore apre anche una nota, che prende le sembianze di un vero e proprio inno, sull’amore di Dio rivelato in Gesù. Gesù Cristo ha preso un corpo umano e ha deciso di correre un cammino risoluto che lo ha portato a morire sulla croce; Egli non fece calcoli a tavolino sui pro e i contro, ma spinto dalla gioia che stava davanti a Lui, si diede accettando di morire sulla croce per l’uomo peccatore.
Il versetto termina con la vittoria di Cristo: Egli è ora vivente ed è seduto alla destra del trono di Dio. I destinatari della lettera sono così invitati non a guardare alla loro situazione in maniera temporale, ma eterna, e precisamente ad affrontare le difficoltà della loro corsa alla luce della vittoria riportata dal Precursore, vittoria di cui anche loro, per fede, sono partecipi (cfr. 1 Giovanni 5:4-5).

I versetti appena letti ci dicono allora che il segreto per correre ed arrivare al traguardo, non risiede nell’attingere alle mie forze e alle mie capacità, ma nel “fissare lo sguardo su Gesù”. Egli è Colui che ha reso possibile la mia e la tua partecipazione a questa corsa e anche oggi Egli estende l'invito a seguirlo a tutti, senza alcuna distinzione di razza, di cultura, di appartenenza, di ceto sociale, o di quant'altro. La corsa è stata iniziata da un atto di grazia, il più grande e profondo di sempre, e la corsa prosegue facendo affidamento su quella stessa grazia che Egli ha manifestato.
Dunque "Fissare lo sguardo su Gesù" perché Lui è il nostro precursore: Egli ha percorso il cammino prima di noi e ha lasciato delle orme perché lo potessimo seguire. Anche se non conosciamo tutto il percorso che ci sta davanti, possiamo sapere che prima di fare il prossimo passo di questa maratona, il mio piede calcherà un orma eterna molto più grossa della mia, l’impronta del piede di Gesù. Cristo è il prodromos: Egli, come precursore conosce le difficoltà del cammino, le asperità, le angosce e le prove che ci possono essere; Egli sa donare la grazia e la forza per affrontarle, quella stessa grazia e quella stessa forza con cui Lui vinse, quella stessa grazia e quella stessa forza che appartengono a Lui e che derivano direttamente da Lui, dalla sua essenza e dalla sua natura divina.
"Fissare lo sguardo su Gesù" perché è Lui il campione della fede (l’archegos) e il compitore (il teleiotes, cioè Colui che perfezione la fede e la porta a completamento): tramite lo Spirito Santo, Lui vive nei nostri cuori e attraverso le situazioni della vita, le salite e le discese, il tempo buono e quello cattivo, gli ostacoli e i tratti piani, tramite tutte le caratteristiche del percorso, Lui sta agendo per formare degli atleti perseveranti che riportino non un vittoria temporanea, ma eterna.
"Fissare lo sguardo su Gesù" perché soltanto da questo punto di vista le cose prendono la giusta prospettiva: infatti la grandezza della ricompensa che Dio ha in serbo, posta lì proprio sulla linea del traguardo, non è paragonabile a nessun altro tipo di premio o di conseguimento. L’insieme della vita con le sue gioie e i suoi dolori, i momenti di pace e i periodi di prova, i momenti di riposo e quelli di tribolazione, acquistano senso soltanto se visti alla luce del volto di Gesù, cioè alla luce dell’eternità stessa; infatti come scrive un altro grande maratoneta Cristiano del passato “io ritengo che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria che dev’essere manifestata a nostro riguardo”( Paolo nella lettera ai Romani).
Ed è proprio per questo motivo un meraviglioso inno di Helen Lemmel ci ricorda

Turn your eyes upon Jesus,
Look full in His wonderful face,
And the things of earth will grow strangely dim,
In the light of His glory and grace.

[fissa il tuo sguardo su Gesù, guarda il Suo volto meraviglioso, e le cose della terra diventeranno stranamente pallide alla luce della Sua gloria e grazia].