giovedì 29 novembre 2007

A small band of little unsung basketball heroes

"Le donne, i cavalier, l'arme, gli amori,
Le cortesie, l'audaci imprese io canto".
Questo l'incipit dell' Orlando Furioso, capolavoro senza tempo di Ariosto.
Io invece canto a una banda di

"piccoli cavalieri impavidi"

ovvero i "miei" bimbi del minibasket.

Ho la grande gioia di allenare questa squadra da due anni (questo per l'appunto è il secondo anno). Ringrazio mio padre che mi ha "passato la palla", dopo che lui ha allenato molti di questi bimbi prima di me (quando avevano la tenera età di cinque, sei anni): l'abilità di mio padre come allenatore è straordinaria ed è per me ancor più straordinario essere alla "sua scuola" (oltre che raccogliere, immeritatamente, i frutti del suo lavoro - Papà lavora ora con altre squadre sempre all'interno della nostra società, la "storica" Malatesta Basket Rimini).

Ma perchè dunque "canto" a questi mini-player?

Martedì abbiamo avuto la prima partita di campionato.
E fin qui tutto nella normalità.
Ma l'impresa consiste nel fatto che i dieci convocati erano tutti, ad eccezione di uno nato nel 1996, classe 1997, laddove i nostri avversari erano tutti nati nel 1996 (tra le altre cose erano in dodici, cioè avevano due cambi in più, ovvero più energie a loro disposizione).
La partita è stata stupenda: un combattimento punto a punto con sorpassi ripetuti; grande agonismo in campo e soprattutto, per l'età dei giocatori, una bella pallacanestro. Io e mio padre in panchina abbiamo giocato una partita in contemporanea: grida, richiami, movimenti da una parte all'altra della panchina, direzione delle "mosse", mostrare i movimenti, esultare ai canestri, arrabbiarsi alle palle perse e alle fischiate dell'arbitro (che per altro è stato bravo), piegare le gambe cercando di difendere dalla panchina come se le movenze fatte a bordo campo cambiassero le cose in campo (questo è un vezzo di molti allenatori; io personalmente non capisco quelli che mantengono la freddezza; il bello dell'allenatore è proprio quello di "vivere" le partite), ecc..

I veri protagonisti però sono loro, i magnifici dieci della serata (Pitagora, che amava il numero dieci, la tetraktis, sottoscriverebbe con entusiasmo questa dizione):

bravo Riki;
bravo Ruben;
bravo Fede;
bravo Giachi;
bravo Giò;
bravo Phil;
bravo Pietro;
bravo Dave;
bravo Tommy;
bravo Marius.

Ottimo lavoro!

Sono onorato di allenarvi (e questo vale per tutti i componenti del team, sia quelli che erano presenti, sia quelli che non c'erano per motivi di salute o per motivi di regolamento federale - purtroppo non posso portare 17 giocatori in panchina); siete un gruppo straordinario: prima di tutto di bambini educati, simpatici, attivi, pieni di energie e di voglia di sorridere alla vita; siete anche una squadra eccezionale che pian piano sta crescendo e si sta "cementando"( ho visto un gioco di squadra meraviglioso martedì sera), nonostante siate ancora piccoli.

Se il buon giorno si vede dal mattino.. allora sarà una bellissima stagione anche quest'anno, a prescindere dalla vittorie o dalle sconfitte: l'impegno e il cuore che mettete in campo sono già il conseguimento più bello.

D'altro canto, come l'altro anno, io ripropongo la stessa scommessa "tra gentiluomini": se anche quest'anno vinciamo il campionato, l'allenatore pagherà il gelato a tutti (ormai è una "nostra" tradizione eh ragazzi?).


E credetemi: sono soldi che spero di spendere!

martedì 13 novembre 2007

Dal fondo della chiesa: la bellezza di sapere che Dio mi ama a prescindere dalla mia acconciatura

Domenica mattina.
Sono in chiesa, appartato su una sedia in fondo alla sala. L'organo trasuda miriadi di note in una polifonia a volte movimentata altre volte lenta e compunta quasi a voler preparare la riflessione e il silenzio che avvolgono le preghiere ieratiche e solenni, ricche di riferimenti e ben misurate.

Sono nella "modalità" malinconico-riflessiva (per altro una modalità che rimane accesa con continuità): ciò significa che attraverso inni, preghiere, letture e quant'altro, sto aspettando quella parola di grazia che lenisca alcune ferite.
(Dicono che in Gilead abbiano del balsamo)

E ad un tratto, in uno di quei momenti che non so definire in altro modo se non vere e proprie epifanie della grazia di Dio, alzo gli occhi verso le teste che cercano di muoversi al tempo dell'inno.
Sono divertenti: ognuna con il suo tipo di capelli, ognuna con la sua acconciatura, ognuna con la sua forma. Forse la più buffa è la mia con la sua solita "criniera" spettinata e ribelle, martoriata dall'azione prolungata delle dita, che attorcigliano i capelli in nodi e figure acrobatiche.
Sono teste belle quelle che vedo.
Sono le teste di persone che conosco da tanto tempo e che non ero mai riuscito a vedere sotto l'ottica da cui le vedo ora.
Non più teste, ma Teste.
Si, perchè una frase del Maestro mi risuona in testa, come se fossi lì a sentirLo mentre la pronuncia davanti a Pietro e Andrea, Giacomo d'Alfeo, Matteo il pubblicano, Simone il Cananeo e tutti gli altri. Sì ci sono anche io ora ad ascoltare: Jonathan il Galaadita (suona bene...).
"Quanto a voi, perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati" (Matteo 10:30).
Balsamo.
La mia testa. Le teste degli altri. Sono teste amate.
I capelli possono cadere, possono essere strappati, possono rimanere in ordine, possono essere spettinati, possono essere arruffati e mossi con forza dal vento, ovvero, la mia vita può attraversare periodi "buoni" e periodi "meno buoni", posso essere perseguitato e disprezzato (capelli strappati), posso essere stimato e onorato (capelli ordinati), posso essere in difficoltà ed essere triste (capelli calati davanti sulla fronte o capelli mossi dal vento), posso essere euforico e sulla cresta dell'onda (capelli con gel con taglio cool!), posso essere addirittura calvo, ma ad ogni modo c'è Qualcuno che vigila sulla mia testa e che è a tal punto interessato a me da sapere e registrare il numero dei miei capelli.

Da quella esperienza ne è scaturita subito una piccola composizione. Essa, come tutto ciò che scrivo, non ha la pretesa di essere un' opera letteraria (anzi devo dire che rileggendola a distanza di qualche settimana da quella meravigiosa domenica, potrebbe sembrare addirittura fanciullesca); l'ho scritta per ricordare, per custodire quest'ulteriore lezione di grazia da parte di Dio, l'ho scritta per me, per appropiarmi maggiormente di questa realtà, l 'ho scritta perchè sia come una fotografia che riporti agli occhi, al cuore e all'essere intero qualcosa che faccia sorridere di gioia e stupore (come ad esempio fanno le "vecchie" foto) e che al contempo crei viva quell'atmosfera nostalgica che ci immerge nel ricordo e nella riflessione e che segna un momento di crescita nella nostra vita.
La condivido nella speranza che possa stimolarvi a gioire nei colori e nella varietà delle teste che vi circondano.
La condivido nella speranza, che come accadde con me quella mattina, possiate conoscere qualcosa di più ancora dell'amore di Colui che ha creato le teste.

Da questa sedia
in fonda alla sala
di una piccola e vecchia chiesetta,
vedo tante teste
e ne vedo i diversi capelli.

C'è chi li ha ricci e voluminosi,
neri corvini (dai magnifici riflessi);
c'è chi li ha corti e biondi,
(sembran esser una linea di contorno
alla geometria sferica del cranio);
capelli lunghi e profumati,
capelli tinti e laccati,
capelli pettinati con la riga a lato,
capelli pettinati con la riga in mezzo,
capelli che ormai non ci son più sulla testa,
capelli grigi, neri, rossi,
capelli he seguono le pieghe della pelle,
capelli mossi, arruffati,
capelli come i miei, disordinati.

Lo spettacolo è variegato
e divertente il pensarci.

Ma ciò che mi fa danzare
di gioia e meraviglia
è pensare che tutti questi
sono capelli CONTATI.

Ogni testa che si muove,
ogni capello dal singolo colore,
ogni cuore che pulsa sangue e
risponde alle emozioni,
Tu lo conosci, Signore.

E tutte queste teste,
sono un tassello (unico e pregiato)
del mosaico che ritrae
l'estensione del Tuo amore.

mercoledì 17 ottobre 2007

The Comrade God

Recentemene ho avuto l'onore di parlare su una tematica davvero ardua e complessa: ovvero il rapporto intercorrente tra la sofferenza e Dio. Ho potuto fare affidamento sulla solidità e l'esperienza di alcuni "giganti". Uso volutamente il termine "giganti" per riferirmi a una bellissima frase di Bernardo di Chatres, copiata poi dal grande Isaac Newton (si anche i geni ogni tanto copiano; vedi il saggio di Robert K. Merton "Nani sulle spalle dei giganti", edizioni Il Mulino):
"Siamo come nani sulle spalle dei giganti, sì che possiamo vedere più cose di loro e più lontane, non per l’acutezza della nostra vista, ma perché sostenuti e portati in alto dalla statura dei giganti". Non avrei mai potuto vedere chiaramente se non avessi riposato sull'esperienza di questi uomini di Dio del passato e del presente.

Sicuramente uno di questi giganti è il grande "Woodbine Willie", cioè Geoffrey Studdert Kennedy, cappellano militare nell'esercito inglese di stanza sul Fronte Occidentale.
Tra i diversi libri che ha scritto, il suo meraviglioso "The Unutterable Beauty" (La bellezza inesprimibile) è tra i miei preferiti di sempre. Esso consiste di una straordinaria collezione di poesie scritte da Studdert Kenedy riguardanti la sua esperienza personale al fronte.
Senza aggiungere ulteriori notizie (magari in un altro post parlerò più dettagliatamente del buon Woodbine Willie) riporto qui di seguito la eccezionale "The Comrade God" ( Il Dio commilitone). Per ora riporto il testo in inglese. A breve includerò anche una traduzione in italiano. Per il momento godetevi questo pezzo di letteratura capolavoro e riflettere insieme a me sull'ultima stanza della composizione (quella che più d'ogni altra mi ha fatto saltare sulla sedia e sta tenendo la mia testa occupata in questi giorni con pensieri di riconoscenza e meraviglia)

THE COMRADE GOD

THOU who dost dwell in depths of timeless being,
Watching the years as moments passing by,
Seeing the things that lie beyond our seeing,
Constant, unchanged, as ions dawn and die;

Thou who canst count the stars upon their courses.
Holding them all in the hollow of Thy hand,
Lord of the world with its myriad of forces
Seeing the hills as single grains of sand;

Art Thou so great that this our bitter crying
Sounds in Thine ears like sorrow of a child?
Hast Thou looked down on centuries of sighing,
And, like a heartless mother, only smiled?

Since in Thy sight to-day is as to-morrow,
And while we strive Thy victory is won,
Hast Thou no tears to shed upon our sorrow?
Art Thou a staring splendour like the sun?

Dost Thou not heed the helpless sparrow's falling?
Canst Thou not see the tears that women weep?
Canst Thou not hear Thy little children calling?
Dost Thou not watch above them as they sleep?

Then, O my God, Thou art too great to love me,
Since Thou dost reign beyond the reach of tears,
Calm and serene as the cruel stars above me,
High and remote from human hopes and fears.

Only in Him can I find home to hide me,
Who on the Cross was slain to rise again;
Only with Him, my Comrade God, beside me,
Can I go forth to war with sin and pain.

lunedì 8 ottobre 2007

Il più grande Maratoneta di tutti i tempi

L'autore della lettera agli Ebrei è uno dei più grandi scrittori Cristiani dell'antichità. Ogni volta che leggo questa epistola (e accade molto spesso, visto che essa contiene alcuni dei mie passi biblici preferiti, che tanto mi aiutarono nella mia "notte nera dell'anima"- vedi alla voce crisi depressiva)rimango profondamente toccato dalla grandezza del testo stesso e dalla tremenda profondità dei concetti espressi. La Cristologia di questo scritto, cioè le cose riguardanti la persona di Gesù Cristo, ha aiutato, incoraggiato, spronato, commosso, toccato, parlato e cambiato tantissime vite nel corso della millenaria storia del Cristianesimo. L'autore di questo scritto era un pastore-teologo; non era un uomo che viveva in una torre d'avorio, isolato dai problemi quotidiani dei suoi fratelli e delle sue sorelle; egli scrive a una comunità di persone che prima di tutto erano per lui amici, gente che conosceva e amava, uomini e donne che in passato avevano sperimentato già “una lotta lunga e dolorosa” (Ebrei 10:32-34; probabilmente ci si riferisce ai Cristiani ebrei che furono espulsi da Roma in seguito all'editto dell'imperatore Claudio - per maggiori dettagli si può consultare il commentario capolavoro di William L. Lane in due volumi edito nella collana Word Biblical Commentary). Dall'atmosfera generale del testo si comprende come un nuovo periodo di persecuzione e prova stesse attendendo questi Cristiani a cui l'ignoto autore scrive (questa nuova ondata di violenza nei confronti dei Cristiani aveva a che fare probabilmente con la politica dell'imperatore Nerone).
I destinatari dell'epistola avevano bisogno di incoraggiamento, avevano bisogno di ispirazione e di motivazioni. Il dolore e la sofferenza erano reali, così come i dubbi, le domande e le paure. Alle persone che stavano affrontando questa grande crisi, il pastore teologo propone non una risposta fatta di parole e teorie, ma una risposta consistente in una Persona. In Ebrei 12:1-3 si trova così scritto:

"Anche noi, dunque, poiché siamo circondati da una così grande schiera di testimoni, deponiamo ogni peso e il peccato che così facilmente ci avvolge, e corriamo con perseveranza la gara che ci è proposta, fissando lo sguardo su Gesù, colui che crea la fede e la rende perfetta. Per la gioia che gli era posta dinanzi Egli sopportò la croce, disprezzando l’infamia, e si è seduto alla destra del trono di Dio. Considerate perciò colui che ha sopportato una simile ostilità contro la sua persona da parte dei peccatori, affinché non vi stanchiate perdendovi d’animo."

In uno dei passagi più celebri e più evocativi del Nuovo Testamento, la vita Cristiana viene presentata come una maratona; una corsa lunga, che richiede disciplina, che domanda allenamento e che spesso coinvolge la sofferenza. I fasci muscolari sono tesi, i nervi scattanti, la concentrazione elevata, il cuore pompa con ritmo regolare e martellante, il sudore scorre abbondante, l'acido lattico comincia a pungolare i muscoli stessi, ma il traguardo è davanti agli occhi: non importa come si è cominciata la gara, ciò che davvero conta è finire bene. Per fare questo, cioè per finire bene, i Cristiani a cui l'epistola è rivolta, dovevano imparare non solo ad essere costanti ma a guardare a Qualcuno che avrebbe potuto produrre in loro perseveranza anche a fronte della persecuzione.

L'autore dello scritto allora presenta il più grande Atleta di sempre. È Gesù.
Usando il Suo nome personale si vuole porre l’accento, probabilmente, sull’umanità di Cristo e in modo speciale sul Suo cammino di ubbidienza perseverante, sulla Sua volontaria umiliazione, sul Suo sopportare dolore, angoscia, il peso della solitudine e la vergogna della croce per amore dei peccatori (tutti temi che per altro sono sviluppati nell'epistola agli Ebrei). Già in altri passaggi della lettera, le considerazioni concernenti l’incarnazione di Gesù Cristo avevano avuto uno scopo pastorale: uno dei punti principali che l’epistola sottolinea è come Dio comprenda l’uomo, e come comprenda le situazioni in cui egli si trovi, siano esse di tentazione o di difficoltà, siano esse di pace o di persecuzione, siano esse di ogni tipo, perché la seconda persona della Trinità, Gesù Cristo, si è abbassato, è sceso sulla terra, ha camminato come un uomo, ha patito tutto quello che io e te patiamo e viviamo durante la nostra vita. Per questo troviamo scritto “poiché Egli stesso ha sofferto la tentazione, può venire in aiuto di quelli che sono tentati”; per questo troviamo scritto che “benché fosse Figlio, imparò l’ubbidienza dalla cose che soffrì (Ebrei 2:18, 5:8). Gesù è presentato in particolare in tre modi che si rifanno ancora una volta alla metafora della maratona e dell'atleta. (1) Cristo è il “prodromos”, cioè il precursore, colui che, secondo una etimologia del termine, dà il ritmo della corsa a tutti gli altri; (2) Cristo è l’ “archegos”, colui che crea la fede, o meglio ancora il campione delle fede, l’iniziatore, il capo (il termine è molto ricco e può benissimo conferire al contempo questa molteplicità di significati); Egli è proprio Colui al quale i lettori dell’epistola sono chiamati a rifarsi, seguendone le orme, poiché è il Suo esempio che diventa il metro di paragone per la vita Cristiana; (3) Cristo è infine il “teleiotes” (un termine che probabilmente è stato cognato appositamente dall’autore della lettera) cioè Colui che porta a compimento, che finisce, che rende perfetta la fede, nella doppia sfumatura di essere la persona in Cui la fede ha raggiunto la sua massima espressione e la Persona che opera il perfezionamento nei Suoi discepoli, rendendoli simili a Lui.
Nel ricordare ai suoi lettori questi aspetti della persona di Gesù Cristo, l’autore apre anche una nota, che prende le sembianze di un vero e proprio inno, sull’amore di Dio rivelato in Gesù. Gesù Cristo ha preso un corpo umano e ha deciso di correre un cammino risoluto che lo ha portato a morire sulla croce; Egli non fece calcoli a tavolino sui pro e i contro, ma spinto dalla gioia che stava davanti a Lui, si diede accettando di morire sulla croce per l’uomo peccatore.
Il versetto termina con la vittoria di Cristo: Egli è ora vivente ed è seduto alla destra del trono di Dio. I destinatari della lettera sono così invitati non a guardare alla loro situazione in maniera temporale, ma eterna, e precisamente ad affrontare le difficoltà della loro corsa alla luce della vittoria riportata dal Precursore, vittoria di cui anche loro, per fede, sono partecipi (cfr. 1 Giovanni 5:4-5).

I versetti appena letti ci dicono allora che il segreto per correre ed arrivare al traguardo, non risiede nell’attingere alle mie forze e alle mie capacità, ma nel “fissare lo sguardo su Gesù”. Egli è Colui che ha reso possibile la mia e la tua partecipazione a questa corsa e anche oggi Egli estende l'invito a seguirlo a tutti, senza alcuna distinzione di razza, di cultura, di appartenenza, di ceto sociale, o di quant'altro. La corsa è stata iniziata da un atto di grazia, il più grande e profondo di sempre, e la corsa prosegue facendo affidamento su quella stessa grazia che Egli ha manifestato.
Dunque "Fissare lo sguardo su Gesù" perché Lui è il nostro precursore: Egli ha percorso il cammino prima di noi e ha lasciato delle orme perché lo potessimo seguire. Anche se non conosciamo tutto il percorso che ci sta davanti, possiamo sapere che prima di fare il prossimo passo di questa maratona, il mio piede calcherà un orma eterna molto più grossa della mia, l’impronta del piede di Gesù. Cristo è il prodromos: Egli, come precursore conosce le difficoltà del cammino, le asperità, le angosce e le prove che ci possono essere; Egli sa donare la grazia e la forza per affrontarle, quella stessa grazia e quella stessa forza con cui Lui vinse, quella stessa grazia e quella stessa forza che appartengono a Lui e che derivano direttamente da Lui, dalla sua essenza e dalla sua natura divina.
"Fissare lo sguardo su Gesù" perché è Lui il campione della fede (l’archegos) e il compitore (il teleiotes, cioè Colui che perfezione la fede e la porta a completamento): tramite lo Spirito Santo, Lui vive nei nostri cuori e attraverso le situazioni della vita, le salite e le discese, il tempo buono e quello cattivo, gli ostacoli e i tratti piani, tramite tutte le caratteristiche del percorso, Lui sta agendo per formare degli atleti perseveranti che riportino non un vittoria temporanea, ma eterna.
"Fissare lo sguardo su Gesù" perché soltanto da questo punto di vista le cose prendono la giusta prospettiva: infatti la grandezza della ricompensa che Dio ha in serbo, posta lì proprio sulla linea del traguardo, non è paragonabile a nessun altro tipo di premio o di conseguimento. L’insieme della vita con le sue gioie e i suoi dolori, i momenti di pace e i periodi di prova, i momenti di riposo e quelli di tribolazione, acquistano senso soltanto se visti alla luce del volto di Gesù, cioè alla luce dell’eternità stessa; infatti come scrive un altro grande maratoneta Cristiano del passato “io ritengo che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria che dev’essere manifestata a nostro riguardo”( Paolo nella lettera ai Romani).
Ed è proprio per questo motivo un meraviglioso inno di Helen Lemmel ci ricorda

Turn your eyes upon Jesus,
Look full in His wonderful face,
And the things of earth will grow strangely dim,
In the light of His glory and grace.

[fissa il tuo sguardo su Gesù, guarda il Suo volto meraviglioso, e le cose della terra diventeranno stranamente pallide alla luce della Sua gloria e grazia].

venerdì 14 settembre 2007

Un regalo nella dolce attesa


Sto per diventare zio. Secondo i calcoli la "d-week" (è difficile parlare di giorno in questo caso) dovrebbe essere la terza settimana di Gennaio. La cosa certa è che sarà un bimbo. Ma la questione che attanaglia solitamente i molti (maschietto o femminuccia?) non mi è passata nemmeno per un momento per la testa: un neonato è un meraviglioso dono di Dio, e il fatto che sia maschio o femmina è come voler cambiare il colore della carta di impacchettatura di un regalo di per sè preziossisimo e inestimabile (forse la metafora è povera ma spero che abbia veicolato nel modo opportuno il mio pensiero).

Non ho parole adeguate per descrivere l'emozione; sto ancora cercando di dare una forma a tutto il flusso di pensieri (bellissimi) che mi passano per la testa; la gioia poi aumenta se mi guardo intorno. Infatti, vedo mamma intenta a preparare, ora all'uncinetto ora alla macchina da cucire, corredi da bimbo; papà continua a mantenere un certo savoir-fair ma in realtà dentro è già "sciolto" (lo capisci dal fatto che alle altre persone parla continuamente del futuro nipote). I nonni vanno sperimentando un misto di tenerezza e commozione all'idea di essere bis-nonni.

E il resto della famiglia è ugualmente entusiasta.

Io, futuro zio, non faccio che ballare e "danzare" all'idea; oggi poi faccio fatica a contenere la frenesia di consegnare uno dei primi regali al mio futuro nipotino. Con mio papà partiremo per andare dai miei "cuccioli" (così chiamo mia sorella Sharon e mio cognato Fabio -detto "Di Ninno"; essendo io più vecchio, mi sento come una fratellone maggiore, ed effettivamente lo sono, eh eh..). Sono sicuro che con Fabio cominceremo a fantasticare sulle attività del pargolo suscitando le risate di mia sorella. Comunque, siccome sono irrefrenabilmente contento, ho deciso, in un "eccesso di follia" di fotografare il regalo: un bellissimo paio di Converse blu (proprio come quelle dello zio).

Siete pregati di intenerirvi insieme a me.

martedì 11 settembre 2007

Don Chisciotte e Dulcinea

Questa è una breve poesia che ho scritto ieri sera, mentre avevo una di quelle fasi tipiche che mi avvolgono durante il mese di Settembre, ovvero una piacevole ora di malinconia. Lungi dall'essere qualcosa di "tragico" è invece un buon tempo di riflessione. Victor Hugo diceva che "la malinconia è la gioia di essere tristi". Un bell'ossimoro, denso di significato e particolarmente vero.
Non c'è una dedica particolare; non c'è la pretesa di voler essere poeta o di voler fare poesia.
Scrivere ha una funzione certamente catartica (grazie Aristotele!), aiuta a fissare idee e a riflettere; io uso lo scrivere in questo senso. Forse l'interpretazione della figura di Don Chisciotte che trapela dalla parte finale della poesia è tipicamente romantica: mi scuso con tutti gli addetti ai lavori per questa elaborazione personale..

A Dulcinea

Ti ho conosciuta, corteggiata,
amata, sposata,
sono invecchiato con te,
abbiamo avuto figli,
abbiamo visto i nipoti,
abbiamo percorso un viale di ciliegi mano nella mano
ed era Maggio
e poi Settembre,
e poi Dicembre,
e poi di nuovo, la primavera.
Abbiamo vissuto stagioni,
trascorso anni,
viaggiato,progettato,
sognato
e condiviso il nostro cuore.
Eppure sono passati pochi istanti
da quando ti ho visto.

E mi riscopro Don Chisciotte,
cavaliere stravagante, sognatore, solitario;
e ti vedo Dulcinea,
tu che non conosco
eppure che guardando negli occhi
ho amato così intensamente,
tanto da trasformare, nel pensiero,
un frazione di tempo
in un cammino insieme,
lungo la vita.

domenica 26 agosto 2007

Davide, l'alfabeto ebraico e la vita

In uno dei più passi biblici più personali e al contempo più amati provenienti dalla "penna" di Davide, si leggono le seguenti parole:

Signore, Tu mi ha esaminato e mi conosci.
Tu sai quando mi siedo e quando mi alzo,
Tu comprendi da lontano il mio pensiero.
Tu mi scruti quando cammino e quando riposo,
e conosci a fondo tutte le mie vie.

[..]
La conoscenza che hai di me è meravigliosa,
troppo alta perchè io possa arrivarci.
(Salmo 139:1-3, 6)


A parte il fatto che questo Salmo sia un capolavoro dal punto di vista squisitamente letterario, esso rimanda a una delle verità più sconvolgenti e incredibili che si possano apprendere dalla rivelazione che Dio da di sè, cioè che Dio è un Dio personale.

Ciò non significa che sia un Dio che possiamo intendere secondo il nostro gusto personale: cioè non posso ragionare dentro di me dicendo "Beh ok l'amore di Dio, ok anche la Sua bontà, ma possiamo tralasciare tutti quei discorsi sulla Sua santità o sulla Sua trascendenza ? Mi piace pensare ad un Dio compagnone che mi strizza l'occhio, una specie di Nonno benevolo che vizia il proprio nipotino"; non posso crearmi un Dio su "misura" che risponda a certi miei interessi e possa essere strumentalizzato secondo il mio capriccio, non posso pensarLo della mia "stessa taglia", eliminando tutti quei dibattiti che si sentono a volte tra i teologi circa Trinità, Eternità, Sovranità di Dio e libero arbitrio perchè non mi piace aver a che fare con Qualcuno che è più grande di me e che la mia mente non può capire e controllare.

No, il fatto che Dio sia un Dio personale non significa niente di tutto questo.

Dire che Dio è personale, significa scoprire, sempre nelle parole di Davide, che Colui che
con le Sue dita ha disteso i cieli, disposto la luna e le stelle e ha posto la Sua Maestà nei cieli, si cura dell'uomo (Salmo 8:1-9) e in particolare di questo uomo, cioè di ogni singolo individuo, uomo o donna che sia , perchè "YHWH è il mio Pastore" (Salmo 23:1).


Davide conosceva bene questa realtà. Gli anni passati nelle caverne come fuggitivo dal re Saul, i periodi di solitudine in cui il numero degli amici era elencabile sulla punta delle dite, mentre per quello dei nemici sarebbe stato opportuno un pallottoliere, la gioventù passata come "disprezzato" talvolta dalla sua stessa famiglia e mandato in "esilio" a pasturare le pecore, le continue lotte e le pressioni che ci sono inevitabilmente su un capo di stato importante, tutte queste cose avevano comunque insegnato a Davide che Dio era lì con lui (propriò lì nella caverna, sulla collina, dentro il palazzo reale, ecc) in mezzo a quelle stesse situazioni, per curarlo, raccogliere le sue lacrime, rafforzare il suo spirito attraverso le Sue infinite risorse (talvolta con una amicizia unica come fu quella con Jonathan, talvolta con le parole di un profeta saggio come Natan, talvolta con la sapienza e il tatto di una bella donna come Abigail,), plasmare con le Proprie dita quest'uomo che divenne davvero un uomo, nel vero significato del termine. E' David Roper a ricordarci che "nel principio ci volle Dio per fare l'uomo; oggi ci vuole ancora Dio per fare un uomo" (ovviamente uso "uomo" nel senso lato che include sia uomini che donne).

Possiamo cominciare a capire perchè Davide allora si esprima in questo modo nel Salmo 139: Dio è un Dio personale, che si interessa di me così come sono, con i miei pregi e i miei difetti, con il mio naso, sia esso normale, aquilino o a patata, e i miei occhi, siano essi azzurri , verdi o castani, con la mia altezza (o bassezza?), con il mio carattere, con il mio modo di vedere la realtà e reagire alle situazioni, insomma con tutto quello che mi rende "me", una creatura voluta e amata da Dio preziosa ai Suoi occhi, così come per Lui ogni uomo e ogni donna sono preziosi.

Dio è quindi interessato a me, ho valore ai Suoi occhi anche se agli occhi della società non ce l'ho perchè non corrispondo al canone estetico in voga, o non ho i titoli accademici giusti, o non ho il carisma che mi rende un leader e non una delle tante "pecore", o ancora non frequento le persone giuste o non ho le amicizie giuste, i miei valori sono antiquati e superati, il mio carattere non è "cool", il mio modo di vestire non è "fashion", ecc. E non solo; Dio vuole usare questa stessa vita per formarmi e per, riprendendo la metafora del vasaio, farmi diventare un vaso bello, di fine fattura, che rispecchi l'impronta inconfondibile del Maestro vasaio (qualcosa di simile l'ho già detto in un post precedente). Ed ecco allora che dalla vita di Davide, siamo passati a considerare anche la nostra vita: perchè quello che era valido per lui è valido anche per noi. Ed ecco che da Davide passiamo alla lingua in cui egli scrive: l'ebraico. Perchè?

Perchè come ha notato in maniera splendida e unica Frederick Buechner:

"La vita stessa può essere pensata come a un alfabeto attraverso cui Dio, con grazia, rende nota la Sua presenza e il Suo proposito tra di noi. Come l'alfabeto Ebraico, l'alfabeto della grazia non ha vocali, e in questo senso le Sue parole sono sempre velate, sottili, nascoste, affinchè sia lasciato a noi il compito di scavare nel loro significato - porre le vocali - per noi attraverso tutta la fede e l'immaginazione che riusciamo a raccogliere. Dio parla a noi in questo modo, presumibilmente non perchè Egli sceglie di essere oscuro, ma perchè, a differenza di un dizionario dove il significato delle parole è fissato, il significato di una parola incarnata è il senso che ha essa ha per colui a cui questa parola è rivolta, il senso che diviene chiaro ed efficace nelle nostre vite soltanto quando lo scopriamo da noi stessi."

Si. La vita di grazia è come l'alfabeto ebraico in cui soltanto le consonanti sono scritte nel testo e dove sta al lettore comprendere quali vocali porre, leggendo il contesto in cui la singola parola è collocata. In questo senso benchè una parola nel dizionario sia fissata nel suo significato, essa prende, per chi la legge, una sfumatura propria e personale (non sto relativizzando la capacità comunicativa del linguaggio, come amano fare alcuni filosofi e pensatori moderni, frammentando il linguaggio stesso e optando per l'incomunicabilità tra le persone) perchè è una parola rivolta a me da un Dio personale che ha scelto di parlare all'uomo in un linguaggio accessibile a tutti, e che al contempo ha scelto di parlare non solo collettivamente e in modo oggettivo ad una comunità (di fede o di persone), ma anche in modo personale e soggettivo (non sto nemmeno puntando verso l' "illuminazione interiore" o verso forme di spiritualità mistica dove non conta l'intelletto, l'oggettività e la comunicabilità, ma solo l'esperienza; sto solo tentando di esplicitare il rapporto che intercorre tra i due aspetti, veri entrambi, dell'oggettività e della soggettività, della collettività e della singolarità del rapporto tra l'uomo e Dio). In questo senso le nostre storie con Dio hanno sia dei lati in comune sia delle caratteristiche proprie che rendono ogni storia un racconto unico.

In questo senso arriva anche la chiamata a smettere di vivere una vita liofilizzata o vicaria: troppe volte rinunciamo a scavare nel significato delle parole che Dio ci rivolge personalmente per utilizzare un vocabolario scritto da altri. La parola di altri è buona e può essere saggia, il consiglio può illuminare e aiutarci a considerare aspetti che non avevamo visto, la preghiera dei nostri fratelli e delle nostre sorelle è preziosa e scalda il cuore, il consiglio di maratoneti Cristiani veterani può avvertirci dal commettere certi errori e certi sbagli da "novellini", ma tutte queste cose non devono diventare il pretesto per smettere di cercare di fondare la mia vita su un rapporto personale, intimo e profondo con Dio: non posso vivere alle spalle di altri, non posso pretendere, e nemmeno volere, che siano loro a decidere per me, non posso riposare soltanto sulle loro preghiere e io, invece, non voler "dialogare" con Dio, non posso avere la fede di un altro, ma sono chiamato io stesso crescere e maturare, a diventare un uomo o una donna, non posso nemmeno lasciare che altri pensino per me, ma devo sviluppare convinzioni e pensieri propri (questo non significa voler essere "originali" a tutti i costi, significa appropiarsi delle cose). Vivere in questo modo significa fare propria la grande realtà che Davide esprime nel Salmo 139: Dio è un Dio personale, interessato alla mia vita, interessato al mio bene, alla mia crescita, alla mia maturazione, è un Dio che si interessa a me e mi ama. Lungi dall'essere un concetto vago, l'amore di Dio mi chiama a vivere davvero, a "rischiare" di ascoltare, a scavare in quelle parole incarnate che si esplicitano nella vita di tutti i giorni, a correre e a vivere quel rapporto per cui sono stato creato e concepito, cioè vivere in comunione con Dio. Vivere in questo modo significa intonare come risposta a questo desiderio di Dio, quello che anche il cantore di Israele
disse a conclusione della sua riflessione:


"Esaminami, o Dio, e conosci il mio cuore.
Mettimi alla prova e conosci i miei pensieri.

Vedi se c'è in me qualche via iniqua

e guidami per la via eterna."

(Salmo 139:23-24)

lunedì 23 luglio 2007

riflessioni all'alba

E' ancora caldo qui a Rimini; nella notte appena passata raramente le foglie si muovevano.

Alle sei ero già sveglio: a nulla è servito rotolarsi da una parte all'altra del letto cercando un angolo fresco o cercando la mitica (mitologica?) "posizione" che assicuri il ritorno a quella oretta di sonno in più che "fa la differenza" (solitamente la ricerca di tale postura impegna notevolmente tutto il corpo: braccio destro sotto il cuscino, braccio sinistro penzolante fuori dal letto, gambe rannicchiate, viso che cerca di affondare la guancia predestinata tra le pieghe del cuscino, ecc..).

Mentre cercavo di occupare ogni zona del letto come se fossi una impasto ben steso con il mattarello, alcune ferite sono tornate a dolere un pochino. Ed ecco che le sei del mattino diventano un buon orario per qualche riflessione e qualche pensiero.

Con la mente torno a lei, involontariamente o forse no, non saprei dire; ora è in America, lontana di quella distanza che la nostra separazione aveva già segnato in maniera invisibile tra le nostre anime. La decisione presa è giusta: non ci sono dubbi. Ci conoscevamo da tanto e tanto tempo avevamo condiviso le nostre vite e i nostri cuori, ma alcune parti dei nostri cuori non erano armonizzate bene; invece di produrre accordi producevamo dissonanze che spesso risultavano in sonorità dodecafoniche (mi perdonino Schoenberg Webern e Berg).

Nonostante questo ci sono stati momenti che risultano essere difficili da dimenticare, quei ricordi che spesso non dicono niente se raccontati ad altri, ma che per i due innamorati sono un vero e proprio altare della memoria, un momumento maestoso e grande a cui spesso il cuore offre sacrifici di riconoscenza.

Ed eccomi ancora nel letto a rotolare e a pensare a lei. Maledetti pensieri orgogliosi: "con chi sarà ora? chissà se poi quell'amico che le stava dietro, ora che ha campo libero, si farà avanti?"; ecco che la mente poi passa a considerare le sue amicizie e i possibili pretendenti, tutti quei "loschi figuri" che quando eravamo ancora insieme, giravano intorno a lei come api intorno al miele; "No, no, Jonathan, così non va, cambia oggetto di pensiero"; ed ecco allora che torno a lei nuovamente e a tutte le nostre convezioni segrete: "raiscbin" ( una parola inventata da lei per indicare una specie di legislazione divertente che avrebbe dovuto regolare la quantità di carezze e di baci a lei dovuta, spesso migliaia), "cuccioli", risate sui momenti vissuti insieme, il concerto a Cesenatico dei Doctor 3 (managgia la serata perfetta dal mio punto di vista: jazz d'autore, posti riservati per noi due a tre metri dagli abili musicisti, passeggiata romantica sul lungo mare, ritorno a casa in macchina tra i mille piccoli bagliori della notte e soprattutto la persona che ami con te, lì a condividere con te questa stessa passione; i suoi occhi persi tra lo sfavillio dei riflettori e i riflessi delle luci sugli strumenti laccati; e le sue mani ("la cosa più tenera che ho mai sentito" direbbe Snoopy) che stringono le tue, mentre con la testa sei proiettato fuori dallo spazio-tempo.

"No no, non va ancora bene, cambia pensieri, cambia, pensa all'esame, alle formule, al dutch-roll, al fugoide, alle derivate aerodinamiche"; non ce la faccio. Forse leggere qualcosa mi aiuterà a focalizzare la mente da un altra parte.

Ecco che allora mi capita tra le mani il volumetto che non mi doveva capitare: Catulli Carmina, ovvero le poesie di Catullo (va beh lo so carmen- carmina- è una dizione più precisa, ma lasciatemi fare una traduzione libera). Da quanto tempo è che non lo aprivo! C'erano due dita di polvere sopra: ora ricordo! Lo comprai in quarta superiore dopo che il fantastico carmen conosciuto come "Odi et Amo" aveva aperto una porta nella mia immaginazione e aveva scosso le mie emozioni (quanti poeti si sono prodotti nella traduzione di questo breve componimento e quanti hanno cercato di carpirne il fascino e la potenza). Comincio a sfogliare le pagine finchè non giungo a "Miser Catulle". Ed ecco quelle righe che riaccendono tutti i pensieri:

"Vale, Puella. Iam Catullus obdurat... Addio, amore mio. Catullo non cede più

non verrà a cercarti, non ti vorrà per forza:

ma tu soffrirai di non essere desiderata.

Guardati dunque: cosa può darti la vita?

Chi ti vorrà? per chi ti farai bella?

chi amerai? da chi sarai amata?

E chi bacerai? a chi morderai le labbra?

Ma tu, Catullo, resisti, non cedere".



Grandioso: caro vecchio Gaio Valerio Catullo, a volte sconcio e sporcaccione, diretto e maleducato, altre volte sarcastico e pungente al limite tra lo sbeffeggio e l'insulto vero e proprio, ma altre volte superbo in quei versi che descrivono le passioni di un innamorato e la sofferenza dell'amante dilaniato tra amore e odio, gelosia e invidia, fuoco e freddezza.



Mi fermo un secondo e chiudo gli occhi: sento pochi rumori, molti ancora dormono. Quando riapro gli occhi sono passati solo dieci minuti; pensavo fosse passata almeno un'ora.



Il flusso di pensieri però non si ferma ai pungenti pizzicotti che alcune ferite danno, nemmeno alla bellezza di certi versi catulliani. Comincio a guardare al sottoscritto e al fatto che c'è Qualcuno che mi ama di un Amore più grande di me e di quello che io ho potuto provare per lei, un Amore più denso e forte di quello che posso avere per qualsiasi altra persona (familiari, amici, ecc), un Amore risoluto, ostinato, gentile, educato, forte, fedele, tenero, pieno di verità e speranza, che desidera vedere nel suo oggetto la realizzazione di ogni bene. Un amore che è l'amore di Dio.

A questo punto i miei pensieri si rivolgono a due testi che nella mia memoria e nel mio cuore sono segnati a lettere cubitali, due passi del Nuovo Testamento che sanno di grandiosità e che al contempo sono tremendi in potenza e significato:

Il primo è di Paolo che, in un impeto biografico e personale (alla stregua di tanti altri momenti d'oro che si trovano nelle sue lettere, in cui addirittura la punteggiatura salta e la penna segue un cuore ricolmo di riconoscenza verso Dio), esclama ai travagliati Cristiani della Galazia: "Sono stato crocifisso con Cristo: non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me! La vita che vivo ora nella carne, la vivo nella fede nel Figlio di Dio, il quale mi ha amato e ha dato sè stesso per me" (Galati 2:20, enfasi mia).

Il secondo è di Giovanni che nella sua prima sinfonia, nota ai più come 1 Giovanni, scrive queste parole straordinarie: "In questo si è manifestato per noi l'amore di Dio: che Dio ha mandato il Suo Figlio unigenito nel mondo, affinchè per mezzo di Lui, vivessimo. In questo è l'amore: non che noi abbiamo amato Dio, ma che Egli ha amato noi, e ha mandato Suo Figlio per essere il sacrificio propiziatorio per i nostri peccati". (1 Giovanni 4:9-10, enfasi mia).



Sono amato (sei amato). Non in maniera superficiale, ma totale.
Sono amato (sei amato). Non in maniera casuale e romantica, ma senza riserve.
Sono amato (sei amato). Non ho dovuto cercare Chi mi amasse, Lui ha cercato me.
Sono amato (sei amato). Non sono io ad avere il cuore dell'innamorato, ma Lui, che nella gioia del Suo amore, fa cantare un orchestra di angeli per avermi trovato (cfr. Luca 15:10).

Ecco perchè Chi scopre questo amore e questa grazia può affermare: "siamo stati uccisi dai baci di Dio" (George MacDonald)

venerdì 20 luglio 2007

Piccola riflessione serale su identità e relazione

Soeren Kierkegaard.
Pensatore voluminoso e imponente, mente brillante e sottile, teologo, filosofo, prosatore, uomo che fece della riflessione una vera e propria missione.
Non nascondo che il grande mister K. sia uno dei miei pensatori preferiti.

Giusto oggi stavo pensando ad un piccolo estratto del suo diario che qui riporto.

"Il Singolo è la categoria attraverso la quale devono passare - dal punto di vista religioso - il tempo, la storia, l'umanità".
Il pensiero poi prosegue in una contrapposizione riguardante il "Singolo" e la "Folla". Kierkegaard vede la "folla come menzogna".

Senza addentrarci troppo nei meandri del pensiero Kierkegaardiano, possiamo però fare una piccola riflessione sulla nostra società.
Anche noi viviamo in un tempo dominato dalla "folla". Modi di fare e di dire, il pensiero stesso, ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, ciò che è buono e ciò che è cattivo, ciò che è bello e ciò che è brutto, ciò che è "cool" è ciò che è "out", tutto questo è determinato dalla "folla", da ciò che la massa pensa. La nostra società spinge le persone a modellare la propria vita e i propri valori etici intorno ai modelli televisi o cinematografici: i fan club sono la punta di un ice-berg chiamato "perdita dell'identità nel conformismo" (e ironicamente l'anti-conformismo è un conformismo alla rovescia). Ma se da un lato la pressione esercitata dalla combinazione "mass-media più folla" è forse una attenuante, resta nostra la responsabilità di opporci o di adeguarci, di dire no o dire sì.

In mezzo a una simile situazione è bene allora prendere sul serio il consiglio di Mister K. e ritornare alla categoria del Singolo, non inteso come teoria egocentrica (cioè me al centro del mondo), ma come pratica di una identità personale che Dio ha donato a ogni creatura: non una chiusura ermetica ed eremitica dal resto del mondo, ma un camminare con gli altri preservando la propria singolarità; non il forzare la propria diversità esibendola con modo eccentrico, ma il coraggio di essere sè stessi in mezzo agli altri con i propri pregi e i propri difetti.

Come ogni altro aspetto di questa vita, e in particolare di quella vita che il Nuovo Testamento chiama cammino del discepolo di Cristo, si tratta di trovare un punto di equilibrio fra due tensioni: la tensione derivante dalla tentazione di perdersi tra le masse e le folle di questo mondo, la tensione derivante dal chiudersi in sè stessi e di non volersi relazionare agli altri (vivere cioè come un'isola).

Un altro grande personaggio del passato ci fornisce questo equilibrio in un suo scritto: "Vedete quale amore ci ha manifestato il Padre, dandoci di essere chiamati figli di Dio! E tali siamo" (1 Giovanni 3:1). Giovanni ci sta dicendo che Dio ci ha dato una identità e ce l'ha data in Suo Figlio Gesù. Una identità che preserva la nostra singolarità (entro in questa relazione con Dio in maniera personale, intima e unica nel suo genere, sono amato singolarmente da Dio e conosciuto da Lui in tutti i miei aspetti ) e una identità che al contempo ci pone in comunione e amicizia con le persone, perchè, una volta che qualcuno ha sperimentato Dio, o per dirla come il Salmista, una volta che uno "ha gustato (assaporato) che Dio è buono" non può fare altro che relazionarsi: condividere, testimoniare, cantare, mangiare, danzare, correre e quant'altro, insieme ad altri.

L'unico modo per diventare veramente umani e vivere la propria identità e,
al contempo, l'unico modo per diventare capaci di vivere in relazione ad altri in maniera completa, è entrare prima di tutto in relazione con Dio: "ogni volta che recuperiamo un pezzo della nostra vita dalla folla e rispondiamo alla chiamata di Dio nei nostri confronti, siamo un pochino di più noi stessi, un pochino di più umani. Ogni volta che ripudiamo gli abiti della folla e pratichiamo le discipline della fede, diventiamo un pochino di più vivi" (Eugene Peterson , Run with the horses, IVP).
Uscire dalla folla per ricevere identità nella relazione fondamentale (quella con Dio); uscire dalla folla per poi tornare tra la folla per servire, essendo capaci di amare il prossimo e di mostrare che Dio cambia le vite dando completezza, guarigione ai nostri contrasti, risposte al nostro anelito di certezze e donando, infine, una identità centrata e radicata nella Sua persona.

Dutch Roll

Aeroplani, ovvero poesia in movimento.
Li studio "per professione" all'università: un sogno che si è realizzato e che tuttora continua; ricordo ancora da piccolo quando con la mia rivista "take off" leggevo le interviste ai piloti e cercavo di memorizzare i nomi dei miei caccia-bombardieri preferiti.
Ma come i grandi amori della vita, anche questo richiede sofferenza (gli americani dicono molto semplicemente "no pain no gain") e pazienza, cura e attenzione, sacrificio e "devozione": così, oggi è il quarto giorno di una settimana calda e afosa in cui la media è stata di oltre trenta gradi, con umidità a livelli esorbitanti, e io, insieme ad altri "compagni di armi" (i cari vecchi Urbinella e Wollo), mi accingo a studiare le sudate carte che cercano di catturare in formule e relazioni matematico-fisiche la magia e il prodigio del volo.
Ipotesi (assi stabilità, assi venti, angoli di Eulero, modelli ridotti), grafici (time histories, Bode, ecc..), algebra lineare (il fidato Cramer, solutore di sistemi),controlli automatici (Gain, Phase,funzioni di trasferimento), aeromeccanica (stabilità longitudinale e latero-direzionale): tutto ciò costa fatica fisica e cerebrale, ma basta vedere un video su youtube, forse non un capolavoro della cinematografia, di un aereo abbastanza comune (un Basset), per cominciare la giornata con la voglia di studiare e comprendere a fondo ciò che sta dietro a questa esaltante avventura chiamata volo.
Perchè il titolo dutch roll a questo post? Per diversi motivi: primo questa mattina è tempo di ripassare il dutch roll (un modo della dinamica laterodirezionale di un aeromobile); secondo perchè vi allego il link al video di youtube di cui parlavo prima, in cui potrete ammirare voi stessi il dutch roll "in azione"; terzo perchè spero che con l'immaginazione riusciate a vedere come questo aereo si stia comportando come un pattinatore sul ghiaccio (il nome deriva proprio da un movimento fatto dai pattinatori sul ghiaccio), cioè con la stessa leggiadria e con la stessa bellezza di movimento.

http://www.youtube.com/watch?v=vqVQ_s8XL6s

Buona visione a tutti.




giovedì 19 luglio 2007

le mani di Dio

Sono innamorato del libro di Geremia: non lo nascondo.
Proprio per questo motivo ogni volta che lo leggo, e ciò accade spesso, rimango sempre affascinato e meravigliato, toccato e segnato profondamente.

Uno dei passi forse più celebri dell'intero libro - Geremia 18 - mi ha "ispirato" (uso una parola grossa dal momento che non sono tecnicamente un poeta o un letterato) una piccola "poesia" che qui pubblico.

"Vai alla casa del vasaio,
Geremia,
vai e guarda la Mia parola incarnata;
questa volta non in un ramo di mandorlo fiorito
e nemmeno in una pentola rovesciata,
ma nelle mani callose del vasaio.

E lì, ascolta la Mia voce
e scorgi in quelle mani
il Mio cuore:
Io,
il Dio che si sporca le mani."

La Bibbia: non la solita storia dell'uomo che cerca Dio, ma la storia di Dio che cerca l'uomo, non la storia di uomini che elevano i loro animi a purezza tramite ascetismi e discipline rigide, ma la storia di Dio che si sporca le mani per fare di blocchi di argilla amorfi, vasi.
Vasi che portino l'inconfondibile impronta del Mastro tornitore.

lunedì 16 luglio 2007

Peter's law

Mentre ero in biblioteca stamattina, mi è capitata tra le mani una antologia di poesie, edita da Einaudi, della poetessa Alda Merini. Sono rimasto particolarmente colpito da una poesia che qui riporto. A parte la bellezza della poesia in sè (dire che è straordinaria è riduttivo), l'episodio a cui indirettamente rimanda, è una storia che amo particolarmente perchè è la storia che si ripete in tante vite, la storia della costanza dell'amore di Dio nei confronti di creature spesse volte "romantiche" e volubili, capaci di grandi affermazioni e di azioni misere e povere, la storia di come Dio fa suonare le "campane della redenzione" in cuori afoni e privi di melodia gioiosa.


Missione di Pietro

Quando il Signore, desolato e grigio,
ombra della Sua ombra incespicava
dentro il Suo verbo colmo di incertezza,
Pietro comparve, forte nelle braccia
e nelle membra a reggerLo nel mondo...

Quando Pietro fu solo nel peccato,
quando già rinnegava il Suo Signore
e Lo vendeva a tutti nella frode,
Dio non comparve (si era già velato
per la notte più oscura profetata),
ma gli fece suonare dentro il cuore
le campane più vive del riscatto.

PIETRO FU IL PRIMO A IMMERGERSI NEL SANGUE!


Questa breve composizione coglie un'aspetto che la narrazione dei Vangeli mette in risalto, cioè la caduta e il ristabilimento di Pietro e soprattutto l'interesse di Cristo nella vita delle singole persone.
Pietro, proprio lui, uomo rude, passionale e sanguigno, veloce nell'affermare grandi cose, veloce nel contraddire con i fatti quelle stesse espressioni titaniche; Pietro, pescatore abile, uomo che sapeva "il fatto suo", forte di braccia e di fisico anche se ormai non più nel fiore degli anni; Pietro uomo onesto e dal cuore leale, lui che disse "Da chi andremmo noi? Tu solo hai parole di vita eterna" (Giovanni 6:68); Pietro, persona amata da Dio e persona in cui Dio voleva compiere qualcosa.
La storia di Pietro è la storia di ogni altro discepolo (di Giovanni abbiamo la sua trasformazione da uno dei Boanerges, cioè figlio del tuono, ad apostolo per eccellenza dell'amore di Dio; che dire poi di Paolo da Tarso e di Giacomo, Tommaso e gli altri?). La storia di Pietro è la storia di ognuno di noi: non noi che cerchiamo Dio, ma Dio che cerca noi, non la nostra costanza, ma la Sua fedeltà,
non le nostre azioni, ma la Sua opera in noi, non il nostro affetto, ma il Suo amore per noi.

Pietro, Giovanni, Paolo, Jonathan, tu,
"il primo a immergersi nel sangue!", quel sangue che ancora adesso porta perdono, pace, completezza e senso nelle nostre vite.

domenica 15 luglio 2007

Briciole di Teologia

Un po' di tempo fa ho letto questa "chicca" del sempre eccezionale Frederick Buechner:

"La teologia è lo studio di Dio e delle sue vie. Per quel che ne sappiamo, gli stercorari possono studiare l'uomo e le sue vie e chiamano ciò umanologia. Se così è, saremmo probabilmente più colpiti e divertiti che irritati. Uno spera che Dio provi la stessa cosa".

Visto il panorama moderno c'è da augurarselo.

Prime Parole

Come i libri iniziano con una introduzione, necessaria all'autore per spiegare le intenzioni o i motivi che lo hanno spinto a scrivere, così anch'io vorrei iniziare le "attività" di questo blog con qualche parola di introduzione al fine di spiegare a tutti coloro che leggeranno, cosa troveranno fra queste righe. Sono una persona per carattere portata all'entusiasmo, e tutto ciò che faccio è motivato dall'entusiasmo e dalla convizione. Sono uno studente, un fratello, un figlio, un cittadino di Rimini, un uomo che vive nel ventunesimo secolo, ma prima di tutto una persona che ha trovato la sua identità in Gesù Cristo: per questo motivo sono in mezzo a tutte queste cose un Cristiano.
In questo blog la mia intenzione è quella di condivedere con altri pensieri, riflessioni, meditazioni, immagini, poesie, aforismi e, in generale, quello che fa parte della mia vita. Spero però che questo processo non sia unidirezionale, ma possa coinvolgere chi legge a rispondere e ad entrare in dialogo. Proprio il processo di dialogo e di confronto con altri è uno dei fattori che credo sia alla base della maturazione personale di un uomo o di una donna. Come scrisse il grande poeta John Donne "nessun uomo è un'isola" e io sono convinto di ciò (oltre che essere innamorato della poesia di J. Donne!).
In un qualche modo le nostre vite si intrecciano e si toccano e nei rari momenti in cui risuciamo a fermarci a pensare, possiamo scorgere, forse con sorpresa, quante persone hanno segnato le nostre vite (sia in bene sia in male): sia le ferite che le carezze provenienti da questo raffrontarci continuamente con altre creature simili a noi, determinano in noi una crescita. Possiamo decidere di sottrarci a questo processo e divenire così chiusi in noi stessi, oppure possiamo decidere di aprire i nostri cuori e le nostre menti per condividere chi siamo davvero ed esporci agli altri: in questo ultimo modo, nonostante si corrano sicuramente dei "rischi", diventiamo vere persone, capaci di parlare e ascoltare, di guardare e pensare.
In questo blog dunque, tu che leggi, troverai semplicemente una sorta di diario di riflessione basato su quella esperienza che è comune a tutti, quel cammino arduo ma al contempo straordinario chiamato vita.
Se in qualche modo la tua e la mia vita saranno arricchite, allora questo blog avrà adempiuto il proposito per cui è stato creato.