domenica 26 agosto 2007

Davide, l'alfabeto ebraico e la vita

In uno dei più passi biblici più personali e al contempo più amati provenienti dalla "penna" di Davide, si leggono le seguenti parole:

Signore, Tu mi ha esaminato e mi conosci.
Tu sai quando mi siedo e quando mi alzo,
Tu comprendi da lontano il mio pensiero.
Tu mi scruti quando cammino e quando riposo,
e conosci a fondo tutte le mie vie.

[..]
La conoscenza che hai di me è meravigliosa,
troppo alta perchè io possa arrivarci.
(Salmo 139:1-3, 6)


A parte il fatto che questo Salmo sia un capolavoro dal punto di vista squisitamente letterario, esso rimanda a una delle verità più sconvolgenti e incredibili che si possano apprendere dalla rivelazione che Dio da di sè, cioè che Dio è un Dio personale.

Ciò non significa che sia un Dio che possiamo intendere secondo il nostro gusto personale: cioè non posso ragionare dentro di me dicendo "Beh ok l'amore di Dio, ok anche la Sua bontà, ma possiamo tralasciare tutti quei discorsi sulla Sua santità o sulla Sua trascendenza ? Mi piace pensare ad un Dio compagnone che mi strizza l'occhio, una specie di Nonno benevolo che vizia il proprio nipotino"; non posso crearmi un Dio su "misura" che risponda a certi miei interessi e possa essere strumentalizzato secondo il mio capriccio, non posso pensarLo della mia "stessa taglia", eliminando tutti quei dibattiti che si sentono a volte tra i teologi circa Trinità, Eternità, Sovranità di Dio e libero arbitrio perchè non mi piace aver a che fare con Qualcuno che è più grande di me e che la mia mente non può capire e controllare.

No, il fatto che Dio sia un Dio personale non significa niente di tutto questo.

Dire che Dio è personale, significa scoprire, sempre nelle parole di Davide, che Colui che
con le Sue dita ha disteso i cieli, disposto la luna e le stelle e ha posto la Sua Maestà nei cieli, si cura dell'uomo (Salmo 8:1-9) e in particolare di questo uomo, cioè di ogni singolo individuo, uomo o donna che sia , perchè "YHWH è il mio Pastore" (Salmo 23:1).


Davide conosceva bene questa realtà. Gli anni passati nelle caverne come fuggitivo dal re Saul, i periodi di solitudine in cui il numero degli amici era elencabile sulla punta delle dite, mentre per quello dei nemici sarebbe stato opportuno un pallottoliere, la gioventù passata come "disprezzato" talvolta dalla sua stessa famiglia e mandato in "esilio" a pasturare le pecore, le continue lotte e le pressioni che ci sono inevitabilmente su un capo di stato importante, tutte queste cose avevano comunque insegnato a Davide che Dio era lì con lui (propriò lì nella caverna, sulla collina, dentro il palazzo reale, ecc) in mezzo a quelle stesse situazioni, per curarlo, raccogliere le sue lacrime, rafforzare il suo spirito attraverso le Sue infinite risorse (talvolta con una amicizia unica come fu quella con Jonathan, talvolta con le parole di un profeta saggio come Natan, talvolta con la sapienza e il tatto di una bella donna come Abigail,), plasmare con le Proprie dita quest'uomo che divenne davvero un uomo, nel vero significato del termine. E' David Roper a ricordarci che "nel principio ci volle Dio per fare l'uomo; oggi ci vuole ancora Dio per fare un uomo" (ovviamente uso "uomo" nel senso lato che include sia uomini che donne).

Possiamo cominciare a capire perchè Davide allora si esprima in questo modo nel Salmo 139: Dio è un Dio personale, che si interessa di me così come sono, con i miei pregi e i miei difetti, con il mio naso, sia esso normale, aquilino o a patata, e i miei occhi, siano essi azzurri , verdi o castani, con la mia altezza (o bassezza?), con il mio carattere, con il mio modo di vedere la realtà e reagire alle situazioni, insomma con tutto quello che mi rende "me", una creatura voluta e amata da Dio preziosa ai Suoi occhi, così come per Lui ogni uomo e ogni donna sono preziosi.

Dio è quindi interessato a me, ho valore ai Suoi occhi anche se agli occhi della società non ce l'ho perchè non corrispondo al canone estetico in voga, o non ho i titoli accademici giusti, o non ho il carisma che mi rende un leader e non una delle tante "pecore", o ancora non frequento le persone giuste o non ho le amicizie giuste, i miei valori sono antiquati e superati, il mio carattere non è "cool", il mio modo di vestire non è "fashion", ecc. E non solo; Dio vuole usare questa stessa vita per formarmi e per, riprendendo la metafora del vasaio, farmi diventare un vaso bello, di fine fattura, che rispecchi l'impronta inconfondibile del Maestro vasaio (qualcosa di simile l'ho già detto in un post precedente). Ed ecco allora che dalla vita di Davide, siamo passati a considerare anche la nostra vita: perchè quello che era valido per lui è valido anche per noi. Ed ecco che da Davide passiamo alla lingua in cui egli scrive: l'ebraico. Perchè?

Perchè come ha notato in maniera splendida e unica Frederick Buechner:

"La vita stessa può essere pensata come a un alfabeto attraverso cui Dio, con grazia, rende nota la Sua presenza e il Suo proposito tra di noi. Come l'alfabeto Ebraico, l'alfabeto della grazia non ha vocali, e in questo senso le Sue parole sono sempre velate, sottili, nascoste, affinchè sia lasciato a noi il compito di scavare nel loro significato - porre le vocali - per noi attraverso tutta la fede e l'immaginazione che riusciamo a raccogliere. Dio parla a noi in questo modo, presumibilmente non perchè Egli sceglie di essere oscuro, ma perchè, a differenza di un dizionario dove il significato delle parole è fissato, il significato di una parola incarnata è il senso che ha essa ha per colui a cui questa parola è rivolta, il senso che diviene chiaro ed efficace nelle nostre vite soltanto quando lo scopriamo da noi stessi."

Si. La vita di grazia è come l'alfabeto ebraico in cui soltanto le consonanti sono scritte nel testo e dove sta al lettore comprendere quali vocali porre, leggendo il contesto in cui la singola parola è collocata. In questo senso benchè una parola nel dizionario sia fissata nel suo significato, essa prende, per chi la legge, una sfumatura propria e personale (non sto relativizzando la capacità comunicativa del linguaggio, come amano fare alcuni filosofi e pensatori moderni, frammentando il linguaggio stesso e optando per l'incomunicabilità tra le persone) perchè è una parola rivolta a me da un Dio personale che ha scelto di parlare all'uomo in un linguaggio accessibile a tutti, e che al contempo ha scelto di parlare non solo collettivamente e in modo oggettivo ad una comunità (di fede o di persone), ma anche in modo personale e soggettivo (non sto nemmeno puntando verso l' "illuminazione interiore" o verso forme di spiritualità mistica dove non conta l'intelletto, l'oggettività e la comunicabilità, ma solo l'esperienza; sto solo tentando di esplicitare il rapporto che intercorre tra i due aspetti, veri entrambi, dell'oggettività e della soggettività, della collettività e della singolarità del rapporto tra l'uomo e Dio). In questo senso le nostre storie con Dio hanno sia dei lati in comune sia delle caratteristiche proprie che rendono ogni storia un racconto unico.

In questo senso arriva anche la chiamata a smettere di vivere una vita liofilizzata o vicaria: troppe volte rinunciamo a scavare nel significato delle parole che Dio ci rivolge personalmente per utilizzare un vocabolario scritto da altri. La parola di altri è buona e può essere saggia, il consiglio può illuminare e aiutarci a considerare aspetti che non avevamo visto, la preghiera dei nostri fratelli e delle nostre sorelle è preziosa e scalda il cuore, il consiglio di maratoneti Cristiani veterani può avvertirci dal commettere certi errori e certi sbagli da "novellini", ma tutte queste cose non devono diventare il pretesto per smettere di cercare di fondare la mia vita su un rapporto personale, intimo e profondo con Dio: non posso vivere alle spalle di altri, non posso pretendere, e nemmeno volere, che siano loro a decidere per me, non posso riposare soltanto sulle loro preghiere e io, invece, non voler "dialogare" con Dio, non posso avere la fede di un altro, ma sono chiamato io stesso crescere e maturare, a diventare un uomo o una donna, non posso nemmeno lasciare che altri pensino per me, ma devo sviluppare convinzioni e pensieri propri (questo non significa voler essere "originali" a tutti i costi, significa appropiarsi delle cose). Vivere in questo modo significa fare propria la grande realtà che Davide esprime nel Salmo 139: Dio è un Dio personale, interessato alla mia vita, interessato al mio bene, alla mia crescita, alla mia maturazione, è un Dio che si interessa a me e mi ama. Lungi dall'essere un concetto vago, l'amore di Dio mi chiama a vivere davvero, a "rischiare" di ascoltare, a scavare in quelle parole incarnate che si esplicitano nella vita di tutti i giorni, a correre e a vivere quel rapporto per cui sono stato creato e concepito, cioè vivere in comunione con Dio. Vivere in questo modo significa intonare come risposta a questo desiderio di Dio, quello che anche il cantore di Israele
disse a conclusione della sua riflessione:


"Esaminami, o Dio, e conosci il mio cuore.
Mettimi alla prova e conosci i miei pensieri.

Vedi se c'è in me qualche via iniqua

e guidami per la via eterna."

(Salmo 139:23-24)